Lo Stato prima li accoglie, poi li forma, in alcuni casi li aiuta a trovare un lavoro, infine li trasforma in fantasmi condannandoli alla clandestinità. Dietro la stretta sugli irregolari annunciata dal Viminale si nasconde un cortocircuito che impedisce a migliaia di profughi di costruirsi una vita in Italia. Anche se ci sono aziende pronte ad assumerli.
Conviene partire da una domanda: perché i migranti non lavorano? La risposta è: perché non glielo permettiamo. Oggi, di fatto, gli stranieri possono mettersi in regola solo dopo essere entrati illegalmente. Le strade sono due. La prima è aderire al decreto flussi. Pensato per fare arrivare dall’estero un numero di lavoratori adeguato alle esigenze dell’economia, nel 2016 erano previsti 13.000 ingressi per lavoratori stagionali, 3600 per non stagionali e 14.250 conversioni di permessi di soggiorno. Ma è ardito pensare che un’azienda assuma una persona da un Paese straniero, magari senza averla mai incontrata. Risultato: il decreto flussi è una sorta di sanatoria mascherata per chi si trova già in Italia. La seconda strada è, invece, quella di fare richiesta di asilo. Ma non tutti scappano dalle guerre. E allora si pone il problema: che fare con chi non lo ottiene?
Su oltre 180mila cittadini stranieri sbarcati in Italia nel 2016 circa 23mila vengono gestiti attraverso la rete Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) degli enti locali, mentre gli altri finiscono nel calderone dei Centri di accoglienza straordinaria di competenza prefettizia. I primi sono i più fortunati: per loro sono previsti progetti di formazione e d’inserimento lavorativo. Di solito si comincia con un tirocinio di sei mesi pagato con fondi statali. Se l’azienda è soddisfatta può richiedere di prolungare l’apprendistato, stavolta facendosi carico dell’indennità versata al richiedente asilo. Nei percorsi più virtuosi il tirocinio potrebbe trasformarsi in un vero e proprio contratto di lavoro. Ristoratori, imprese agricole, cooperative, artigiani, commercianti: in tanti vorrebbero assumere i ragazzi arrivati dall’Africa. Ma qui sorgono i problemi: sul futuro dei migranti pende infatti il verdetto alle loro richieste di asilo. Per sei su dieci la risposta è negativa. Le commissioni territoriali e i tribunali chiamati a valutare le domande di protezione seguono infatti altri criteri, senza prendere in considerazione il percorso svolto dal richiedente asilo e la sua situazione lavorativa.
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«Ben venga chi arriva in Italia per lavorare, fuori i delinquenti», è il ritornello bipartisan che ripetono i politici. Peccato che anche a chi un’occupazione l’avrebbe trovata, spesso vengano negati i documenti. Il paradosso è tutto qui: l’Italia sta trasformando potenziali lavoratori in clandestini. Si stima che sul territorio nazionale ci siano almeno 50mila migranti fantasma e altrettanti potrebbero diventarlo nei prossimi mesi. In gergo li chiamano “diniegati”: stranieri che hanno fatto richiesta di asilo, ma per i quali è stata respinta. A loro viene consegnato un foglio di via che intima di lasciare autonomamente il territorio nazionale entro sette giorni. Cosa che non accade quasi mai: i migranti restano in Italia e spariscono in una zona grigia senza diritti né doveri, esposti a sfruttamento e illegalità. Ecco perché il Viminale vuole rafforzare i controlli e accelerare sui rimpatri. Il capo della polizia, il prefetto Franco Gabrielli, ha diramato una circolare che invita i prefetti a rintracciare gli irregolari. L’obiettivo è fare in modo che le espulsioni non restino sulla carta.
Ma gli operatori dell’accoglienza sono convinti che per prosciugare questa zona grigia esistano anche altre strade. Come regolarizzare chi ha un contratto di lavoro. Nei giorni scorsi le cooperative e le associazioni dei progetti Sprar di Torino che gestiscono i richiedenti asilo e le aziende che ospitano i tirocinanti hanno creato la rete “SenzaAsilo” nel tentativo di dare la sveglia alle istituzioni: «Non possiamo far finta che il problema non esista, serve una revisione delle regole», è la richiesta che intendono sottoporre a governo e Parlamento. «Chi valuta le domande d’asilo deve prendere in considerazione anche la situazione lavorativa dei singoli migranti». In pochi giorni sono arrivate adesioni da tutta Italia. Tra le proposte sul tavolo una sanatoria e l’introduzione di forme di regolarizzazione su base individuale degli stranieri. Perché trasformare i migranti lavoratori in fantasmi non conviene a nessuno.
LE STORIE
Ibrahim, dal Gambia
“Ho un posto da lavapiatti, ma sogno di diventare chef”
Ventidue anni e un sorriso disarmante. Ibrahim è uno spilungone cresciuto in Gambia e sbarcato in Sicilia nell’estate del 2014. Oggi lavora come lavapiatti al ristorante “Centenario”, tappa obbligata per i palati torinesi sedotti dalla cucina messicana. Dopo due tirocini, ha un contratto part-time che scade il 31 gennaio 2017, ma il datore di lavoro è pronto ad assumerlo a tempo indeterminato. «Ringrazio l’Italia per avermi accolto e aiutato. Adesso chiedo solo che non mi venga tolta la possibilità di lavorare, per il resto so cavarmela da solo».
Ibrahim racconta la sua storia seduto sui divani di velluto rosso del locale che per lui è diventato una seconda casa: «Ho fatto il muratore in Libia, ma lì non c’era futuro. Non vedo mia madre da quattro anni, mi manca. Ogni mese cerco di mandarle cento euro per i miei fratelli più piccoli». La paura è quella che il sogno svanisca: ha chiesto asilo e dopo due dinieghi è in attesa della sentenza d’appello.
All’altro capo del tavolo siede Stefano Cavallero, proprietario del ristorante e di altri tre locali in città. «Ho 45 dipendenti. Sono pronto ad assumere Ibrahim, ma senza i documenti non posso farlo». Ma perché un imprenditore vuole a tutti i costi puntare su questo ragazzone arrivato dal Sud del mondo che parla un italiano zoppicante? «Perché lui è educato, puntuale, umile, affidabile. Mi spiace ammetterlo, ma sono qualità che non è semplice trovare nei giovani italiani». Nell’ultimo anno Ibrahim si è dato da fare: «Ha voglia di imparare, nelle ultime settimane gli sto facendo seguire un corso da aiuto cuoco», racconta Cavallero. «Il mio sogno? Mi piacerebbe diventare chef», dice Ibrahim ridendo. Poi si fa serio: «No, ho sbagliato a rispondere. Il mio sogno è un altro: riabbracciare mia madre e portarla in Italia. Ha sofferto troppo, se lo merita».
Luis, dal Congo
“La mia famiglia è perseguitata, nessuno mi crede”
«La mia vita è un tunnel senza luce. Io non ho più diritto al futuro». Singhiozza e piange Luis, seduto nel bar di un ipermercato della periferia di Torino. E le sue lacrime stridono con la stazza imponente di questo uomo congolese di 33 anni, arrivato in Italia nel 2012 come studente alla facoltà d’informatica del Politecnico. Figlio di insegnanti, parla un italiano impeccabile. Ha chiesto asilo perché i suoi familiari «sono perseguitati politici». Nel suo passato c’è anche lo strazio per un fratello sparito in circostanze misteriose, il corpo non è mai stato trovato. Luis ha raccontato tutto questo e molto altro alla commissione territoriale chiamata ad esaminare la sua richiesta di asilo. «Ma non mi hanno creduto», racconta. Attraverso lo Sprar sta svolgendo un tirocinio presso un’azienda che crea reti digitali. Perché Luis è un talento. Ha un diploma universitario in informatica e certificazioni internazionali che testimoniano la sua professionalità. Se solo potesse, non avrebbe problemi a trovare un lavoro.
Ma Luis ha ricevuto un doppio diniego. Niente protezione, niente futuro. Ora aspetta la sentenza definitiva che deciderà la sua sorte. «Questa attesa mi devasta». Ringrazia l’Italia per averlo accolto: «Mi spiace solo che la gente abbia paura. Quando mi siedo sul pullman, c’è chi si alza per non starmi vicino». Luis sogna la normalità: una casa, una moglie, dei figli. «Ma ormai ho perso fiducia. Spesso evito di uscire a pranzo con i miei colleghi e resto in ufficio perché ho paura di essere fermato dalla polizia». Luis sospira, poi guarda l’orologio. La pausa pranzo è finita, si torna in ufficio. Si strofina gli occhi e le lacrime tornano a scendere lungo le guance: «Nella mia testa passano tanti brutti pensieri. La cosa che mi fa più male è che non sono più la stessa persona, questa storia mi ha cambiato per sempre».
George, dal Gambia
“Quando esco dal cantiere ho il terrore di finire al Cie”
Davide Dan è un elettricista torinese. Due settimane fa ha deciso di prendere carta e penna per scrivere una lettera. L’ha indirizzata al tribunale d’appello che, dopo il doppio diniego, dovrà riesaminare la richiesta d’asilo del ragazzo che lavora per lui: «È molto disponibile e puntuale. È cresciuto sotto l’aspetto professionale dall’inizio del tirocinio ad oggi grazie alla sua costante attenzione, applicazione ed interesse. In questo momento sono disponibile ed interessato per un’assunzione a tempo indeterminato del ragazzo. Distinti saluti». Il ragazzo si chiama George, ha 26 anni e arriva dal Gambia. Indossa guanti da lavoro e si sfrega le mani per combattere il freddo di un’umida mattina di dicembre: «Sono scappato dal mio Paese perché laggiù c’è una dittatura - racconta-. Per alcuni mesi ho lavorato in Libia, ma era troppo pericoloso. Sono stato rapinato più volte. Sono arrivato nel luglio del 2014, la mia vita ormai è in Italia». Per attraversare il Mediterraneo ha pagato 900 dollari agli scafisti. Sulla barca con lui c’erano altri 700 migranti, in 150 non ce l’hanno fatta. «Ci avevano ammassati nella stiva. I più deboli sono morti asfissiati dai vapori della benzina o per le ustioni sulla pelle dovute alle perdite di carburante». George si muove agile tra cavi elettrici e corrugati: «Davide mi sta insegnando tutto, mi piace creare la luce. Ma quando torno a casa ho paura di essere fermato dalla polizia e di finire al Cie». Fuori dal cantiere scorre la vita. «Mi alleno con una squadra di calcio che milita in prima categoria, ma non posso giocare le partite ufficiali perché non ho il permesso di soggiorno». Per Davide Dan questo ragazzo non è solo un dipendente: «George è speciale perché capisce il mio umore. Ho avuto vari apprendisti, ma con nessuno mi ero trovato così bene. Spero che lo Stato gli dia i documenti per restare».
Gimi, dal Gambia
“Amo preparare i ravioli e vorrei studiare Economia”
Nel cuore della movida torinese c’è una coppia di ristoratori che con spirito battagliero sfida le leggi italiane. La disobbedienza civile di questi due cinquantenni brizzolati è un atto d’amore per Gimi, aiuto cuoco gambiano di 27 anni. Dopo due tirocini, il proprietario del locale ha deciso di assumerlo a tempo indeterminato. Il problema è che Gimi, nel mentre, è diventato clandestino. La sua corsa verso il futuro si è fermata davanti al doppio diniego alla sua domanda d’asilo. Ha tentato un ultimo ricorso, ma le speranze sono minime. Il ristoratore lo sa: «Di fatto lui lavora da noi senza documenti. Avevamo anche inviato una lettera al giudice del tribunale spiegando che lui per noi è una risorsa fondamentale. Ma la risposta è stata negativa». Gimi è serio e affidabile, in cucina non sgarra mai. Ma per la coppia che gestisce questo ristorante c’è di più. «È un ragazzo straordinario, ormai è diventato uno di famiglia, ha le chiavi di casa nostra. È frustrante non poterlo aiutare». E così questi due ristoratori hanno deciso di forzare le regole, ben consapevoli dei rischi: «Abbiamo chiesto al nostro consulente del lavoro di attivare comunque un contratto a tempo indeterminato, anche se non ha il permesso di soggiorno».
Gimi lavora in cucina: «Mi piace preparare i ravioli, sono il mio piatto preferito», racconta quasi spaesato di fronte a tanto affetto. Sogna di iscriversi all’università: «Vorrei studiare economia». Ma per ora resta qui, a sfornare prelibatezze per i suoi coetanei . Se arriva qualcuno per un controllo, Gimi sparisce dalla porta del retro. «Gli abbiamo chiesto di essere pronto a scappare», raccontano i ristoratori. «Gimi oggi non può aprire un conto corrente. Se sta male, non può curarsi. Non è giusto. Ma se lo Stato è miope, qualcuno deve pur fare qualcosa».