Nel discorso del Ventaglio il Presidente Grasso interviene
auspicando un accordo per una modifica della composizione del
senato nella proposta di riforma costituzionale in discussione. La
possibilità di modificare il testo è al centro del dibattito
politico. Perché, e come cambiare?
Il problema viene dal clima politico mutato. Renzi ha perso un pezzo
del Pd, e pagherebbe un prezzo politico molto alto sostituendolo con
ex-berlusconiani, comunque camuffati. I numeri precari in Senato
spiegano le sue più recenti mosse. Lo scambio tasse — riforme, il
patto con gli italiani, il richiamo al voto popolare. Il referendum
confermativo sulla riforma costituzionale è ormai certo, perché
in senato il voto dei due terzi dei componenti che potrebbe evitarlo
è obiettivo irrealizzabile. Il premier gioca d’anticipo, lanciando
fin d’ora una campagna plebiscitaria, in puro stile
berlusconiano.
Qui viene il problema tecnico. La proposta di riforma è stata
approvata dal senato l’8 agosto 2014 e dalla camera il 10 marzo 2015,
con modifiche. Per l’articolo 104 del regolamento del senato «nuovi
emendamenti possono essere presi in considerazione solo se si
trovino in diretta correlazione con gli emendamenti introdotti
dalla camera dei deputati». Il punto è che l’articolo 2, sul senato non
elettivo imbottito di un ceto politico di seconda scelta, ha visto
cambiare nel dibattito alla camera una sola parola. Basta per
tornare, con un emendamento, al senato eletto direttamente dai
cittadini?
Anche se il testo è ancora emendabile in altri punti, la sola
modifica che oggi conta è questa. Perché lo stesso Renzi ci si
è inchiodato sopra, pur essendoci ottimi motivi, più volte esposti su
queste pagine, per non farlo. Ma soprattutto perché una battaglia
plebiscitaria si combatte con i bazooka e le scimitarre, e non
con forbiti argomenti da seminario. Non si discuterà del riparto di
competenze tra stato e regioni, della corsia preferenziale per il
governo in parlamento, o simili piacevolezze. Si combatterà
all’ultimo sangue sullo scippo ai diritti democratici dei
cittadini, sulla riduzione degli spazi di democrazia,
sull’autoritarismo strisciante. Soprattutto se, com’è molto
probabile, saranno in campo anche altri referendum, come sulla legge
elettorale. E in un contesto avvelenato dal preside sceriffo,
dai bavagli per le voci scomode, dai tagli alla sanità camuffati da
razionalizzazioni di spesa, dalla insostenibile leggerezza
dimostrata nei contesti europei e internazionali. Certo, sarà un
plebiscito su Renzi. Ma bisognerà vedere se il premier terrà a galla
il nuovo senato, o il nuovo senato tirerà a fondo Renzi.
Quindi, cambiare. Certo, una lettura rigorosa di regolamenti
e precedenti dice che non basta una parola emendata per rivoltare
uno dei punti fondamentali della proposta. Anche Grasso lascerebbe
intendere modifiche limitate. Ma norme e precedenti vanno letti
con intelligenza. Soprattutto per la riforma della Costituzione.
L’articolo 138 era stato voluto dai costituenti per dare attraverso un
ampio consenso stabilità e durevolezza alle architetture
fondamentali della Repubblica. Ha funzionato per decenni su due
implicite premesse: il sistema elettorale proporzionale, e la
convenzione per cui non si modificava la Costituzione senza
l’accordo dei soggetti politici in origine stipulanti (il
cosiddetto «arco costituzionale»). Per questo nel 1983 la
Commissione Bozzi non partì fino a quando non ci fu per le mozioni
istitutive la firma dell’allora Pci con Giorgio Napolitano. E si
capisce perché i regolamenti parlamentari riducessero la
seconda deliberazione ex articolo 138 a un prendere o lasciare,
precludendo la modifica del testo approvato in prima
deliberazione. La costituzionalità è dubbia. Ma in realtà non
c’era bisogno di altro.
Tra il 1992 e il 1994 sono venuti meno sia il sistema proporzionale,
sia l’arco costituzionale. Ma è rimasta l’esigenza di durevolezza
e stabilità. Non si fa una Costituzione nuova per un orizzonte
precario e a breve termine. E come si pensa di poter dare oggi al
paese una architettura stabile e duratura forzando le scelte di una
maggioranza raccogliticcia, gonfiata da un premio
incostituzionale, sostenuta da salti della quaglia e cambi di
casacca determinanti? Una Costituzione palesemente espressione di
un consenso minoritario?
Nelle audizioni in corso in Senato è stato ricordato — in
particolare da Besostri, oltre che da me — un precedente del 1993
che legge la navetta in maniera elastica e ampia, giungendo a una
modifica dell’articolo 68 della Costituzione che diversamente non
avrebbe visto la luce. Se si dovesse ritenere preclusa questa via,
è a mio avviso possibile ricorrere a uno stralcio mirato. Per
l’articolo 101 del regolamento, uno o più articoli possono essere
stralciati «quando siano suscettibili di essere distinti dagli altri
per la loro autonoma rilevanza normativa». Tale è certamente il
caso per il senato non elettivo e norme connesse. Sarebbe così
possibile lasciare in piedi il superamento del bicameralismo
paritario, e il resto della riforma che — con qualche correzione —
potrebbe persino risultare dignitosa.
Le parole di Grasso possono intendersi come una possibile apertura.
Ma per come si è mosso finora il premier c’è poco da sperare che
cerchi un compromesso onorevole. Citando un autorevole
osservatore della politica italiana, talvolta vorremmo che il
premier fosse un po’ meno furbo, e un po’ più intelligente. Crescerà?