La Costituzione non è una semplice carta dei valori.
È legge fondamentale e suprema anche e innanzitutto nel segnare i limiti entro cui può svolgersi ogni potere costituito, nel rispetto dei diritti fondamentali delle persone e della loro dignità e viene disciplinata la stessa volontà popolare, come ci ricorda il rimpianto Prof. Stefano Rodotà, recentemente scomparso.
Rodotà ci ha accompagnato durante la battaglia referendaria conclusasi il 4 dicembre 2106 con un fragoroso No alla revisione costituzionale che è stato nel contempo un Sì collettivo alla democrazia parlamentare costituzionale e alla stessa idea di costituzione come limite del potere, sottoposta allo scrutinio popolare.
Una revisione che, come affermò il grande giurista nel corso di una Assemblea dei Comitati per il No tenutasi a Roma in un'aula parlamentare a Montecitorio il 12 gennaio 2016 alla quale ho partecipato con altri promotori del Comitato per il No, disgregando la democrazia parlamentare, con "il combinato disposto del ddl costituzionale e l'Italicum, avrebbe condotto verso la democrazia plebiscitaria, espropriando i cittadini, confinati alla passività, dei diritti sociali e politici". "Il tentativo di impadronirsi della Costituzione è fallito"; "bisogna far sì che la Costituzione resti sempre luogo di confronto continuo e comune", ha ammonito Rodotà dopo il voto.
Ricordando che "la rivoluzione dell'eguaglianza, mai davvero compiuta, l'eredità difficile, la promessa inadempiuta del secolo breve, è oggi accompagnata dalla rivoluzione della dignità" e che "Il passaggio dall'Europa dei mercati all'Europa dei diritti diviene così ineludibile, condizione necessaria perché l'Unione possa raggiungere piena legittimazione democratica".
Perché non sia stata vana la scelta che seguì all'8 settembre del 1943 di chi andò in montagna o di chi si diede alla macchia negli ambiti urbani per tessere le reti della Resistenza, dei tanti militari che rifiutarono obbedienza alla Repubblica sociale serva e alleata dell'occupante nazista, dei tanti e delle tante cittadine che aiutarono fattivamente i nostri partigiani nelle città e nelle più lontane contrade, atto di sovranità popolare, non comandato da nessun potere o da nessuna autorità superiore.
A tale stregua, per Rodotà il populismo "è una spiegazione troppo semplice. I partiti tradizionali non riescono più da tempo a leggere la società. Non è populismo, è crisi della rappresentanza".
Stefano Rodotà ci ha in tal modo interrogato, al di là di ogni formalismo tipico della scuola di diritto positivo, sia pure con qualche ambiguità inevitabile, ma sempre sorretto da una sana idea di "concreta" utopia (per usare un ossimoro necessario che non ne intende limitare le potenzialità euristiche) sulla stessa idea di democrazia in una società in rapidissimo cambiamento, le cui trasformazioni spesso la politica fatica a interpretare o peggio non interpreta, nemmeno intendendo farsene carico...
La sua risposta è che occorra dare nuova centralità alla rappresentanza, trovando nuove forme per realizzarla allo scopo di garantire l'effettività dei diritti fondamentali, cominciando dai diritti delle persone e da una cittadinanza sempre più ampia, multiforme e attiva.
Sempre con approccio laico, di chi sia capace - affermava – "di esprimere con forza e convinzione il suo punto di vista, ma che al tempo stesso deve lavorare perché vi siano le condizioni per un confronto aperto e continuo tra i diversi punti di vista". Che, dunque "deve quindi impedire la formazione di qualsiasi tipo di ghetto, religioso, etnico, localistico, ideologico". Di qui la "concretezza" della sua visione giuridica dei diritti fondamentali e a un tempo il suo "moralismo". Per restituire umanità al diritto e dignità alle persone. Recuperando i principi dell'etica pubblica e della politica come servizio per la comunità.
Su Repubblica del 20 giugno 2012, a proposito della revisione dell'art.81 della Costituzione, approvato con maggioranza superiore ai 2/3 nella generale indifferenza, scriveva:
"Con una battuta tutt'altro che banale si è detto che la riforma dell'articolo 81 ha dichiarato l'incostituzionalità di Keynes.
L'orrore del debito è stato tradotto in una disciplina che irrigidisce la Costituzione, riduce oltre ogni ragionevolezza i margini di manovra dei governi, impone politiche economiche restrittive, i cui rischi sono stati segnalati, tra gli altri da cinque premi Nobel in un documento inviato a Obama. Soprattutto, mette seriamente in dubbio la possibilità di politiche sociali, che pure trovano un riferimento obbligato nei principi costituzionali. La Costituzione contro se stessa? Per mettere qualche riparo ad una situazione tanto pregiudicata, uno studioso attento alle dinamiche costituzionali, Gianni Ferrara, non ha proposto rivolte di piazza, ma l'uso accorto degli strumenti della democrazia. Nel momento in cui votavano definitivamente la legge sul pareggio di bilancio, ai parlamentari era stato chiesto di non farlo con la maggioranza dei due terzi, lasciando così ai cittadini la possibilità di esprimere la loro opinione con un referendum.
Il saggio invito non è stato raccolto, anzi si è fatta una indecente strizzata d'occhio invitando a considerare le molte eccezioni che consentiranno di sfuggire al vincolo del pareggio, così mostrando in quale modo siano considerate oggi le norme costituzionali. Privati della possibilità di usare il referendum, i cittadini — questa è la proposta — dovrebbero raccogliere le firme per una legge d'iniziativa popolare che preveda l'obbligo di introdurre nei bilanci di previsione di Stato, regioni, province e comuni una norma che destini una quota significativa della spesa proprio alla garanzia dei diritti sociali, dal lavoro all'istruzione, alla salute, com'è già previsto da qualche altra costituzione. Non è una via facile ma, percorrendola, le lingue tagliate dei cittadini potrebbero almeno ritrovare la parola".
Parole profetiche, nel momento in cui si sta avviando con il Comitato per il No alla riforma costituzionale un disegno di legge di iniziativa popolare per la riforma dell'incostituzionale (direbbe Rodotà) art.81 e connessi artt. 117 e 119 Costituzione.
Altro tema caro a Rodotà giurista, quello dei beni comuni. Nel 2008 la "commissione Rodotà" fu incaricata di riformare la disciplina codicistica dei beni pubblici, a elaborare la categoria. "Con una precisione che poi andrà perduta", sottolinea Gaetano Azzariti nella sua orazione in memoria tenuta all'Università di Roma.
"Se quella Commissione – e poi Rodotà in tutte le sue riflessioni successive sul tema – avevano ben presente i limiti e la natura costituzionale della categoria (beni funzionali all'esercizio dei diritti fondamentali e al libero sviluppo della persona, si leggeva nella relazione), mi sembra che successivamente ci si sia allontanati troppo dall'àncora costituzionale e che oggi sia elevato il rischio di un uso improprio, perché troppo generico, della formulazione bene comune, bonne à tout faire. Anche in questo caso sarebbe opportuno tornare a studiare i beni comuni con il rigore di Rodotà", sottolinea Azzariti, che in tal modo riassume e classifica quei beni secondo l'indicazione di Rodotà.
"I beni comuni sono quei beni a consumo non rivale, ma esauribile, come i fiumi, i laghi, l'aria, i lidi, i parchi naturali, le foreste, i beni ambientali, la fauna selvatica, i beni culturali, etc. (compresi i diritti di immagine sui medesimi beni) i quali, a prescindere dalla loro appartenenza pubblica o privata, esprimono utilità funzionali all'esercizio dei diritti fondamentali e al libero sviluppo delle persone e dei quali, perciò, la legge deve garantire in ogni caso la fruizione collettiva, diretta e da parte di tutti, anche in favore delle generazioni future".
In conclusione, caro Professore ci manchi e ci mancherai!