Con la sola
eccezione della Corea del Nord le potenze nucleari, a
cui si è associata anche l’Italia, hanno preso posizione
contro il tentativo messo in atto dall’ONU per giungere
a un trattato per la messa al bando delle armi nucleari.
La decisione di procedere in questa direzione era stata
presa dall’Assemblea generale del 23 dicembre 2016 che
aveva istituito una speciale Conferenza dell’ONU per
predisporre il testo del trattato. Ma le potenze
nucleari e quelle della NATO (con l’eccezione
dell’Olanda, che però ha poi espresso l’unico voto
contrario),si sono rifiutate di partecipare calla
Conferenza, che tuttavia il 7 luglio scorso ha
approvato con 122 voti
favorevoli (quasi due terzi dei membri dell’ONU), 1 voto
contario e 1 astenuto il testo del trattato antiatomico che dovrà
essere ora sottoposto alla firma e alla ratifica degli
Stati. Il primo articolo del documento dice che
“ciascuno Stato firmatario si impegna, in qualsiasi
circostanza, a non: a.) Sviluppare, sperimentare,
produrre, costruire, in altro modo acquisire, possedere o
depositare armi nucleari o altri esplosivi dispositivi
nucleari;b.) Trasferire direttamente o indirettamente ad
altri riceventi qualsiasi arma nucleare o altro esplosivo
dispositivo nucleare o controllo su tale arma o
dispositivo esplosivo; c.) Ricevere il trasferimento o il
controllo delle armi nucleari o altro dispositivo
esplosivo nucleare direttamente o indirettamente; d.)
Usare o minacciare di usare armi nucleari o altri
dispositivi nucleari esplosivi; e.) Assistere,
incoraggiare o indurre, in ogni modo, chiunque ad
impegnarsi in qualsiasi attività vietata ad uno Stato
membro sotto la presente convenzione; f.) Cercare o
ricevere assistenza in qualsiasi modo da chiunque in
qualsiasi attività vietata ad uno Stato membro della
presente convenzione;g.) Permettere ogni dislocamento,
installazione o sviluppo di qualunque arma nucleare o
altro dispositivo esplosivo nucleare nel proprio
territorio e in qualunque posto sotto il proprio controllo
e giurisdizione.” Il governo italiano, interrogato in
Parlamento sul perché avesse rifiutato di partecipare
alla Conferenza e di concorrere alla stesura del
trattato, ha risposto che esso, così com’è stato
concepito, indebolirebbe il regime di non proliferazione nucleare
esistente, e suscita dubbi circa la sua reale capacità
di porsi quale strumento di disarmo nucleare
irreversibile, trasparente e verificabile, ragione per
cui il governo non lo sottoscriverà. Insomma il trattato
sarebbe controproducente, e farebbe aumentare le bombe
invece che diminuirle. Si ignora la logica di questa
asserzione.
Di nuovo perciò l’arma
nucleare minaccia il mondo, mentre ardono i focolai
della “terza guerra mondiale a pezzi”. Perciò occorre
tornare alla lotta, come i popoli hanno mostrato di
saper fare. È uscito in queste settimane un prezioso
libro che racconta la lotta, con “fiori e sorrisi” come
la descrisse un giudice chiamato a condannarla in
tribunale) contro i 112 missili di Comiso (Davide
Bocchieri, Centododici, Fiori sorrisi e
politica contro i missili Cruise a Comiso, Edizioni
Pressh24, Ragusa, 2017). Il libro rievoca
quel movimento di popolo e anche le ferite della Chiesa
di Ragusa che allora, nel suo vescovo, non fu per la
pace. Il libro, che nasce da una tesi universitaria del
suo autore, reca una prefazione di Raniero La Valle, che
qui riproduciamo.
Vorrei dire in queste pagine perché questo libro è di straordinaria importanza e bellezza. Ne indico quattro motivi.
1) Il primo motivo è che, per il
fatto stesso di esserci, è un libro che milita contro la
più pericolosa malattia del nostro tempo, che è la
perdita-rimozione della memoria.
Senza memoria non siamo nessuno, abbiamo occhi che non
vedono, orecchie che non odono, sensi che non discernono,
e non possiamo né capire né guidare la storia.
Come dice l’autore, nessuno sa niente di Comiso, sui libri
di scuola non c’è neanche un rigo, per chi vuol sentire
affiora solo qualche scarno racconto di qualcuno che
c’era; che cosa si giocò a Comiso in quegli anni Ottanta
nessuno lo dice, quegli eventi sono sprofondati nel nulla
allo stesso modo in cui nulla sapeva di Comiso, delle sue
case e delle sue vigne, il ministro socialista che la
scelse per metterci i missili, convinto che quello, nel
profondo Sud della Sicilia, fosse un luogo deserto.
Ma non è solo della vicenda dei missili nucleari che
nell’Italia della rottamazione nessuno sa più nulla.
Recentemente per un breve ricordo televisivo del sequestro
e dell’uccisione di Moro, TV 2000 ha chiesto a studenti
di giurisprudenza e di scienze politiche se sapessero chi
era Aldo Moro; nessuno lo sapeva, quello che più si
avvicinò alla verità collegò Moro al terrorismo, dicendo
che era stato il capo delle Brigate Rosse. Questa è la
ragione per cui non c’è una classe dirigente giovane che
oggi possa governare l’Italia, perché se non si sa nulla
né del mondo che era diviso in due dal terrore nucleare,
né della disfatta dei partiti che non seppero gestire
umanamente il caso Moro, né del conflitto sempre aperto
tra Costituzione e potere, non si può guidare l’Italia.
2) Il secondo motivo è che questo
libro mette in mostra la cultura politica e l’ideologia di
cui i missili di Comiso erano il prodotto, una cultura che
non è stata smantellata insieme alla base in cui quegli
ordigni erano stati installati. Senza convertirsi, i
poteri espressi da quella cultura hanno interpretato la
fine della guerra fredda e la rimozione del muro di
Berlino come una propria vittoria, e al mondo non più
diviso in blocchi hanno imposto la nuova armatura della
globalizzazione capitalistica, ripristinando guerre e
paure e facendo un mondo peggiore di prima.
Non erano queste le speranze quando l’8 dicembre 1987
festeggiammo l’accordo di Washington tra Gorbaciov e
Reagan che segnò l’inizio del disarmo nucleare.
Quell’accordo alleggerì la terra di una parte delle sua
armi di sterminio, e con la terra alleggerì la Sicilia e
Comiso di 112 testate nucleari da 200 chilotoni l’una che,
in tutto, facevano oltre 22 milioni di tonnellate
equivalenti di tritolo, il che vuol dire 1500 Hiroshima,
sette volte e mezzo tutto l’esplosivo della II guerra
mondiale (la “madre di tutte le bombe” gettata da Trump
sull’Afghanistan è pari “solo” a 10 tonnellate di
tritolo). E non solo quelle armi venivano distrutte, non
in una guerra ma per fare la pace, ma per la prima volta
venivano anche delegittimate, screditate e, sia pure in
piccola parte, condannate al rogo, maledette; e non
importa che si trattasse solo del 3 per cento delle armi
nucleari esistenti, quello che contava era il principio,
era che cominciava il disarmo atomico.
Per questo allora festeggiammo quell’evento; e lo
festeggiammo come una promessa di liberazione; perché quei
missili nucleari, messi a dominare il mondo, non solo
erano simboli di morte, ma erano anche simboli e artefici
di schiavitù; sotto il tallone dell’arma nucleare, anche
se non ce ne accorgevamo, tutto il mondo era in catene,
nessuno poteva liberarsi; per questo la storia si era
fermata, la politica si era oscurata e ogni rivoluzione
sembrava esaurita o preclusa, tanto che se ne era
dimenticata perfino la parola. Distruggere le armi,
restituire la parola alla politica voleva dire dunque per
noi riprendere la dinamica storica, aprire la strada alla
soluzione razionale dei problemi, tornare all’intelligenza
delle cose; sotto l’elmo di Scipio infatti ristagnava e
languiva il pensiero, bisognava togliersi l’elmo per
liberare il pensiero, e occorreva alzare la celata, per
tornare a guardarsi negli occhi, a scoprire nel volto del
nemico quello di un fratello.
Per questo c’era stata in tutto il mondo quella grande
lotta di massa contro l’installazione dei missili piantati
a fronteggiarsi nel cuore dell’Europa; per questo uomini e
donne si erano messi di mezzo, anche soltanto col loro
corpo, per fermare la corsa all’idolo nucleare; e
l’avevano fatto quando sembrava che quel sistema di
violenza, di dominio e di guerra, dopo la gara dei
missili, stesse per oltrepassare un punto di non ritorno;
e questo punto di non ritorno era l’idea reaganiana, già
messa in cantiere, delle guerre stellari, che mirava a
militarizzare lo spazio per meglio irretire e dominare la
terra. Sarebbe stato un punto di non ritorno, perché
voleva dire lanciare nello spazio migliaia di satelliti
armati, voleva dire attivare armi non convenzionali che
colpiscono e distruggono alla velocità della luce, sicché
non ci sarebbe stato nemmeno il tempo di fermare un
computer, voleva dire ridurre tutta la terra a un’unica
immensa servitù militare inclusa in un cielo trasformato
in un solo poligono di tiro; né in tal modo, spinte
all’estremo, si sarebbero saturate le potenzialità della
violenza perché allo scudo spaziale americano si sarebbe
contrapposto lo scudo sovietico e sarebbe continuato
l’eterno gioco della reciprocità violenta.
Quando quel precipizio si arrestò, le lotte per la pace
parvero aver vinto e la minaccia atomica cessò, sembrava
di sognare. E perciò non sembrarono eccessive le speranze
che quella cultura e quelle politiche culminate nella
logica del potere nucleare sarebbero state ripudiate, si
sarebbero convertite e si sarebbero mutate in nuove
culture e nuove politiche. Così non è stato, non c’è stato
nell’Occidente “vittorioso” un “nuovo pensiero politico”,
come quello che aveva permesso a Gorbaciov la svolta
democratica e nonviolenta nell’Unione Sovietica, e le
attese sono andate deluse. Ma ricostruire oggi quella
storia vuol dire riconoscere il punto da cui ricominciare.
3) Il terzo motivo che rende
questo lavoro prezioso è la dimostrazione che quando ogni
ragione sembra venir meno, la ragione della Costituzione e
del diritto perdura, il dettato costituzionale non è
manipolabile e continua a gridare la verità. È quello che
si evince dagli atti del processo alle dodici pacifiste
arrestate a Comiso per la loro azione nonviolenta, atti
finora inediti, che animano le pagine più intense e
appassionanti di questo libro. La Costituzione aveva già
permesso che si creasse una mobilitazione popolare
pacifica contro la decisione del governo, aveva permesso i
grandi raduni e le marce della pace, la raccolta di un
milione di firme in Sicilia per una petizione contro i
missili, il tentativo parlamentare della Sinistra
Indipendente di promuovere un referendum “abrogativo”
della parola “missili” nella legislazione ordinaria,
sostituito poi dai cinque milioni di firme di un
referendum informale autogestito; ma dove la Costituzione
irruppe con tutta la sua forza fu nell’imbarazzo della
magistratura giudicante nel processo contro le donne
pacifiste, dove all’esiguità quasi ironica della condanna
(contro la durezza della polizia e dell’esecutivo) si
accompagnarono, nei diversi gradi di giudizio, motivazioni
e riflessioni che sembravano più un’apologia delle ragioni
delle colpevoli che una censura. Nel processo poterono
udirsi degli stupendi discorsi e messaggi delle imputate
sulle loro motivazioni, che i giudici considerarono così
persuasive da non doversi nemmeno analizzare, l’accusa di
blocco stradale fu derubricata a generica “violenza
privata”, si negò che fosse un’occupazione delle terre il
piantare delle pacifiche tende, consenzienti i
proprietari, accanto a un minaccioso impianto di guerra,
e furono citati largamente i supremi valori costituzionali
che erano di superiorità schiacciante rispetto a un
“reato” consistente – parola dei giudici – in “un modesto
ingombro della sede stradale”: un ingombro che aveva
fermato per poco tempo ben pochi camion, con sbarramenti
fatti di fili di lana e, a detta della corte, “con fiori e
sorrisi”.
Certo nei giudici persistevano culture legaliste e
maschiliste, come quando negarono che l’azione dei
pacifisti fosse dettata dallo stato di necessità, perché
quando il “reato” era stato commesso i missili nel campo
ancora non c’erano, quindi dove stava la “necessità” di
bloccarli? O come quando negarono che il gesto delle donne
di stendersi sulla strada realizzasse una forma di
manifestazione del pensiero, a norma dell’art. 21 della
Costituzione: infatti secondo i giudici il pensiero si
manifesta con la parola, non con il corpo, e meglio
sarebbe stato andare a dibattere in un consiglio comunale
il modo di fermare i missili di Reagan, invece che
mettersi in mezzo alla strada per impedire ai camionisti
di entrare nella base; i giudici non capirono che quello
stendersi per terra significava invece far sapere a tutto
il mondo che a Comiso c’era chi, uomini e donne, italiane
e straniere, lottavano con tutte le forme pacifiche e
nonviolente per cambiare il pensiero e le decisioni dei
signori della guerra. Qui la distanza tra le pacifiste e i
giudici non poteva essere maggiore: perché mentre le donne
e il movimento femminista rivendicano il linguaggio del
corpo, e lo usano proprio come manifestazione del
pensiero, per i giudici invece il corpo non parlava.
In ogni caso quel processo segnò uno dei punti più alti
dell’istruttoria morale su Comiso.
4) Il quarto motivo
dell’importanza di questo libro sta nella
rappresentazione del conflitto apertosi nella Chiesa, il
cui massimo segno di contraddizione fu la benedizione
impartita dal vescovo al tempio costruito nel campo, di
contro alla veglia fatta dai pacifisti al di fuori del
filo spinato, al canto dei salmi di padre Turoldo. La
rievocazione di quel conflitto apre infatti la strada a
comprendere l’epocale differenza tra quella Chiesa, ancora
irretita nelle spire della violenza, nonostante il
Concilio, e la Chiesa di oggi di papa Francesco.
In quel tempo, benché la violenza fosse criticata in via
di principio, la nonviolenza era
sostanzialmente estranea alla Chiesa. Avrebbe
dovuto esprimere l’identità della Chiesa, dato che la
Chiesa nasce dal Vangelo, e invece non vi stava di casa.
Il problema è che c’era una radice di violenza nella
stessa concezione di Dio inteso come giudice, come
vendicatore, come esattore di sacrifici ed olocausti, come
un Dio forte in battaglia. La stessa rivelazione, nella
sua fase ancora acerba e immatura aveva tramandato
immagini incoerenti di Dio, come è attestato in alcune
pagine molto dure della Bibbia. E storicamente era
avvenuto che una Chiesa non separatasi dalla violenza,
aveva teorizzato la guerra giusta, aveva acceso i roghi
per gli eretici e per le streghe, aveva fatto le Crociate;
san Bernardo, che pure era un mistico, aveva spiegato che
uccidere un infedele non è un omicidio, ma un malicidio;
la pena di morte era stata vigente perfino nello Stato
pontificio; a Roma, in piazza del Popolo, si faceva con
“mazzola e squarto”; poi passava la “Ven.
Arciconfraternita di Gesù, Maria e Giuseppe dell’anime più
bisognose del Purgatorio” a fare la questua per l’Anima
del condannato, senza però fermarsi “in tempo della
Giustizia nella Piazza del Patibolo”, come diceva la
convocazione dei Fratelli questuanti, che assicurava come
per tal Opera Pia essi avrebbero acquistato “merito grande
appresso Dio”. E quella cultura era rimasta nella Chiesa,
ben oltre la fine dello Stato pontificio: quando nel 1960
andai a dirigere “l’Avvenire d’Italia”, un regista
francese, Autant Lara, fece un bellissimo film contro la
pena di morte e in favore dell’obiezione di coscienza, “Tu ne tueras point”
(1961); il film fu censurato, ma “l’Avvenire d’Italia” ne
fece una critica molto favorevole e il vescovo di Vicenza
protestò duramente col cardinale Lercaro, arcivescovo di
Bologna, che del giornale era considerato il tutore.
Oggi possiamo misurare come la situazione sia cambiata e
come, se ci fosse una nuova Comiso, anche la Chiesa dei
vertici sarebbe diversa. È successa infatti una cosa
imprevista, una cosa straordinaria: la Chiesa cattolica ha adottato la
nonviolenza. Essa non le è più estranea, non è una
cosa “altra” rispetto al Dio che essa annunzia. In
effetti, come aveva detto Karl Rahner parlando del
Concilio, non è cambiato solo l’annunciatore, è cambiato
l’annuncio.
Prima di tutto è cambiata la presentazione del volto di
Dio. Nella percezione umana, fin dai tempi più antichi,
come ha documentato Rudolf Otto nella sua ricerca su “Il
sacro”, il volto di Dio è stato nello stesso tempo terribilis et fascinans,
affascinante e terribile, quello di un re “tremendae maiestatis”,
come canta il “Dies irae”. Quello
presentato oggi dalla Chiesa di papa Francesco è invece un
“misericordiae vultus”,
un volto di misericordia, come dicono le prime parole
della bolla di indizione del Giubileo straordinario del
2016. Affascinati dalla misericordia del Figlio, noi non
eravamo troppo abituati all’idea della misericordia del
Padre, troppo spesso sovrastata dall’idea della giustizia
e della punizione. Ma nella predicazione di papa Francesco
in Dio non c’è che misericordia, Dio perdona sempre, è
sempre primo nell’amore; né in lui c’è ombra di violenza,
e c’è il dolore di Dio, che per amore dell’uomo si fa
scacciare dal mondo e sale sulla croce col Figlio. C’è un
documento del 2013 della Commissione Teologica
Internazionale sul monoteismo e la violenza, in cui si
riconosce e si afferma la radicale separazione del
cristianesimo da ogni visione che implichi una violenza di
Dio; e in questo documento si dice che la supposta
violenza di Dio è stata definitivamente smentita e
rovesciata sulla croce. Infatti sulla croce non è salito
un uomo qualunque, dicono i teologi del Papa citando il
secondo concilio di Costantinopoli, ma “Unus de Trinitate passus est“.
Uno della Trinità stava li sulla croce, non era solo
l’uomo Gesù, era il Dio della Trinità che stava sulla
croce.
Allo stesso modo è cambiata la comprensione del rapporto
tra misericordia e giustizia di Dio. «Se Dio si fermasse
alla giustizia cesserebbe di essere Dio, sarebbe come
tutti gli uomini che invocano il rispetto della legge»
dice papa Francesco nella “Misericordiae vultus”.
Il cambiamento consiste nel comprendere che in Dio
giustizia e misericordia sono la stessa cosa. Esse sono in
dialettica, in contrasto, se viene riferito a Dio un
concetto antropomorfico di giustizia, la giustizia come
retribuzione, come il pareggio di una pesata eguale, come
l’ “unicuique suum” che sta
scritto perfino sotto la testata dell’«Osservatore
Romano». Ma la giustizia di Dio non è affatto questa, non
è la vendetta, non è rendere male per male, la giustizia
di Dio è il rendere giusti, è la giustificazione per fede,
come dice Paolo, è la grazia.
Questa più matura percezione della misericordia e della
giustizia di Dio ha fatto cadere la concezione vendicativa
e punitiva della dottrina del peccato originale e delle
sue conseguenze nel sacrificio che il Padre avrebbe
preteso dal Figlio. Questa concezione, come ha detto lo
stesso Benedetto XVI, papa emerito, in un’intervista all’
“Osservatore Romano” “è diventata oggi per noi certo
incomprensibile”. mentre la dottrina di Sant’Anselmo, che
l’ha diffusa in tutta la Chiesa “non è solo
incomprensibile oggi – ha detto Ratzinger – ma, a partire
dalla teologia trinitaria, è in sé del tutto errata“.
Nell’attuale nuova coscienza ecclesiale il peccato
originale non è alzare la mano verso il frutto dell’albero
della conoscenza, come se ciò fosse alzare la mano contro
Dio, ma è alzare la mano contro il fratello.
Per questo oggi non sarebbe più possibile una legittimazione religiosa della guerra. Perché in Dio non c’è violenza, “il Dio della guerra non esiste”, come ha detto il papa commentando il vangelo a Santa Marta, e il cristianesimo prende definitivo congedo dal Dio violento. Infatti, come dice il documento già citato dei teologi del papa riuniti nella commissione internazionale, il Dio violento, foriero delle guerre di religione, è il frutto di un fraintendimento della fede, e l’eccitazione alla violenza in nome di Dio è “la massima corruzione della religione”, Perciò il papa ha scritto nel messaggio per la giornata della pace del 1 gennaio 2017: «Nessuna religione è terrorista, La violenza è una profanazione del nome di Dio. Non stanchiamoci mai di ripeterlo. “Mai il nome di Dio può giustificare la violenza. Solo la pace è santa, non la guerra!”» Nello stesso messaggio il papa ha fondato la nonviolenza sulla dignità immensa della persona, che deriva dall’essere immagine e somiglianza di Dio; dunque la scelta nonviolenta non è solo una scelta ideologica o politica, il suo valore è antropologico, entra nella definizione dell’uomo. È appunto quello che i pacifisti hanno testimoniato, e che le donne nonviolente processate a Ragusa per aver usato il loro corpo per “un modesto ingombro della sede stradale” hanno cercato di far capire ai giudici e, manifestando in tal modo il pensiero, hanno detto al mondo.
Raniero La Valle