Giudici e pubblici ministeri hanno votato per il rinnovo del Consiglio superiore della magistratura. La cosa è avvenuta nel pressoché totale disinteresse dei media e della politica; scarsa attenzione sta riscuotendo anche l’esito del voto. Non a caso. Il pensiero unico che pervade da qualche tempo tutte le componenti giudiziarie rende assai poco significativo l’esito delle elezioni, i cui soli dati certi (confermati dai primi risultati, in particolare nella categoria dei pm) sono il trionfo del corporativismo e il drastico ridimensionamento di Md.
Se non la vera e propria scomparsa di Magistratura democratica (fatto, peraltro, acquisito già prima del voto ché in alcune categorie, come i giudici di legittimità e i pubblici ministeri, non c’erano neppure candidati ad essa riferibili, coerentemente con il cupio dissolvi che ne caratterizza il gruppo dirigente). Non è un buon segnale ché, di questi tempi, se la politica ha perso ogni autorevolezza e credibilità, anche la giurisdizione non gode di buona salute. Certo, c’è una parte della magistratura che continua, seppur isolata, a mantenere schiena dritta e barra ferma in settori importanti, dal perseguimento della corruzione e della criminalità organizzata alla tutela di diritti fondamentali (talora persino in tema di lavoro o di libertà personale).
Ma, da qualche tempo, gli scricchiolii sono numerosi e gravi: la crescita del carcere (contenuta solo da interventi legislativi tampone) evidenzia come la cultura delle garanzie sia esibita a parole ma assai spesso disattesa, almeno nei confronti degli ultimi; il surplus di repressione nei confronti di ogni forma di opposizione sociale dà la misura dell’assunzione, da parte della magistratura, di una funzione di tutela acritica dello status quo, attenta al Testo unico di pubblica sicurezza più che alle norme costituzionali; lo scontro in atto alla procura di Milano (l’ufficio, da almeno vent’anni, più importante del paese) non è solo un conflitto caratteriale tra prime donne o una poco commendevole imboscata ma è, anche, il portato della ristrutturazione gerarchica del pubblico ministero realizzata con la «riforma Mastella» e di un evidente deficit di trasparenza e pubblicità; il fastidio, anche interno alla corporazione, per indagini e processi aventi ad oggetto il controllo delle (possibili) illegalità del potere si tocca con mano; l’insofferenza a ogni critica — considerata «delegittimazione» tout court — segnala una preoccupante autoreferenzialità; l’incapacità del Consiglio superiore di intervenire in modo autorevole ed esplicito nelle situazioni di sofferenza degli uffici va di pari passo con l’accettazione acritica della propria riduzione a consiglio di amministrazione eterodiretto finanche con missive del capo dello Stato destinate ad essere conosciute solo dal vicepresidente (sic!); il passaggio di magistrati a funzioni di potere e di diretta attività politica (talora senza neppure abbandonare, almeno di fatto, i propri ruoli associativi) diventa corsa, a dimostrazione, insieme, di una progressiva e non disinteressata cooptazione da parte della politica e di una crescente disaffezione di pubblici ministeri e giudici rispetto al proprio ruolo istituzionale.
I segnali negativi vanno individuati per tempo, anche per dare spazio e forza alla parte migliore della magistratura. Questo ha fatto, nei suoi periodi migliori, il Consiglio superiore in attuazione del suo ruolo costituzionale: precisando e garantendo l’indipendenza e la libertà di tutti i singoli giudici e i pubblici ministeri e, contemporaneamente, intervenendo per rimuovere e sanzionare le aree di opacità e di collusione presenti in alcuni uffici. È stato anche grazie a questa attività alta del Consiglio che la magistratura italiana ha acquisito consapevolezza del proprio ruolo e, negli ultimi decenni, ha sostanzialmente tenuto, dando un contributo importante — nel rispetto del proprio ruolo — alla crescita democratica del Paese. Ma la situazione non è, evidentemente, irreversibile.
Da tempo è in corso nel paese — nella prassi e in sede di modifiche istituzionali — un riassetto del sistema di potere in termini genuinamente antidemocratici. Lo ha scritto recentemente, in termini espliciti, Gustavo Zagrebelsky: «Se solo per un momento potessimo sollevare il velo e avere una veduta di insieme resteremmo sbalorditi di fronte alla realtà nascosta dietro la rappresentazione della democrazia.
Catene verticali di potere, quasi sempre invisibili e talora segrete, legano tra loro uomini della politica, delle burocrazie, della magistratura, delle professioni, delle gerarchie ecclesiastiche, dell’economia, della finanza, della università, della cultura, dello spettacolo, nell’innumerevole pletora di enti, consigli, centri, fondazioni che, secondo i propri princìpi, dovrebbero essere reciprocamente indipendenti e sono, invece, attratti negli stessi mulinelli del potere corruttivi di ruoli, competenze e responsabilità». Ciò riguarda tutti. Anche la magistratura. Ci sarebbe (c’è) bisogno di un Consiglio superiore attento e vigile! Le premesse, purtroppo, non sono esaltanti.