Ora anche la magistratura -prima la Procura di Trani, ora quella di Milano- ha deciso di andare a vedere cosa è veramente successo nel secondo semestre 2011, quando, nel nostro Paese, la straordinaria vittoria referendaria sull'acqua e il conseguente indebolimento del governo Berlusconi furono improvvisamente sostituiti da uno scenario di allarme epocale sul debito pubblico, aperto dalla famosa lettera dell'Unione Europea al governo italiano e culminato a novembre con l'arrivo al potere dell'uomo del “rigore” Mario Monti.
Mesi in cui la parola “spread” mandava di traverso le cene degli italiani e la colpevolizzazione degli stessi “per aver vissuto da decenni al di sopra delle proprie possibilità” inondava i talk show.
Un'emergenza scatenata a fine luglio 2011 dalla pubblicazione da parte di Deutsche Bank dei propri dati di bilancio del semestre precedente, dai quali emerse come la banca fosse passata da detenere titoli di Stato italiani per un valore superiore a 8 miliardi a fine 2010 a soli 922 milioni al 30 giugno 2011.
Una vendita repentina con un chiaro invito agli investitori finanziari a fuggire dall'Italia, che da quel momento divenne paese ad alto rischio e fu incatenata nella trappola del debito pubblico e nelle conseguenti politiche di austerità.
Peccato che, nel medesimo mese di luglio, Deutsche Bank avesse ricomprato -a prezzi stracciati- gli stessi titoli italiani fino a portarli ad un valore complessivo di 3 miliardi di euro, realizzando così forti profitti speculativi.
Tre miliardi di riacquisto sono comunque inferiori agli otto detenuti in precedenza, ma in realtà era quest'ultimo dato ad essere anomalo: Deutsche Bank ha infatti per molti anni detenuto intorno ai tre miliardi di euro di titoli di Stato italiani e l'impennata del 2010 era unicamente dovuta all'acquisizione di Postbank, un istituto bancario tedesco che aveva in cassa quasi sei miliardi di titoli italiani.
Una semplice riorganizzazione dei propri investimenti è stata dunque trasformata in una gigantesca operazione speculativa, che ha messo alle corde un intero Paese, trascinandolo nella gabbia delle politiche rigoriste dell'Unione Europea e di governi tutti allineati nell'utilizzare la trappola del debito pubblico per approfondire le politiche di attacco ai diritti del lavoro, ai beni comuni e alla ricchezza sociale collettiva.
Che l'operazione di Deutsche Bank non fosse casuale, lo dimostra la stesura, nel dicembre 2011, da parte della stessa banca, del rapporto “Guadagni, concorrenza e crescita”, nel quale Deutsche Bank indicò alla Commissione Europea quali misure avrebbero dovuto intraprendere Francia, Spagna, Portogallo, Italia e Grecia per uscire dalla crisi. In quel rapporto, riguardo all'Italia si dice:
“(..) I Comuni offrono il maggior potenziale di privatizzazione. (..) si stima che le imprese a capitale pubblico abbiano un valore complessivo di 80 miliardi di euro e il piano di concessioni potrebbe generare circa 70 miliardi (..) Inoltre il valore degli edifici pubblici arriva a 421 miliardi (..) Quindi, secondo le informazioni ufficiali, il patrimonio pubblico potrebbe raggiungere il valore complessivo di 571 miliardi, vicino al 37% del PIL.”.
L'indicazione è ovviamente quella di privatizzare il più possibile, recepita dalla Ue e da tutti i governi da allora insediatisi.
Siamo di fronte ad un'altra evidenza di come il debito pubblico, lungi dall'essere una neutra realtà con cui fare i conti, abbia costituito, e tuttora costituisca, per dirla con Milton Friedman, “lo shock per far diventare politicamente inevitabile ciò che è socialmente inaccettabile”, ovvero l'alibi per una gigantesca espropriazione sociale.
Un'indagine indipendente e popolare sul debito pubblico, per smascherarne il carattere ideologico e metterne in discussione la legittimità è, oggi più che mai, urgente e necessaria.