Il 16 aprile si è svolto in Turchia il referendum sulla approvazione della “riforma” costituzionale approvata a gennaio dal Parlamento, che modifica 18 articoli della Costituzione instaurando un regime autoritario fuori dallo schema dello Stato di diritto, trasformando il Capo politico (il Presidente della Repubblica) in una sorta di nuovo Sultano. Il nuovo testo della Costituzione trasforma la forma di governo in un regime iperpresidenziale, nel quale il Capo dello Stato, già eletto dal popolo in base alla revisione costituzionale del 2007, diventerebbe il Capo del potere esecutivo. Potrebbe essere rieletto per altri due mandati; nominerebbe i ministri; avrebbe il potere di sciogliere il Parlamento e di fare ricorso a decreti con forza di legge non sottoposti al controllo parlamentare; designerebbe 6 dei 13 membri del Consiglio dei giudici e dei procuratori (gli altri 7 sarebbero eletti dai 3/5 del Parlamento e quindi sarebbero tutti o in parte espressione della maggioranza) e 12 dei 15 componenti della Corte costituzionale. In pratica si tratta di un testo fatto su misura per assicurare un potere quasi assoluto al Presidente Erdogan e al Partito islamista che è al governo dal 2002. Si tratta di una riforma che per la Turchia ha il sapore del ritorno all’antico, della restaurazione del Sultanato, cancellando il percorso di costruzione dello Stato di diritto avviato dal fondatore della Turchia moderna, Kemal Ataturk. La vicenda turca si inserisce nel quadro della trasformazione in senso antidemocratico delle Costituzioni o della loro violazione aperta con leggi che limitano i diritti fondamentali e annullano i poteri degli organi di garanzia, come la magistratura e la Corte costituzionale, che si sta verificando in vari Paesi europei (come l’Ungheria e la Polonia). Ma non è estranea al tentativo in atto anche all’interno di democrazie mature di ridurre gli spazi di libertà e di ridimensionare la democrazia rappresentativa e partecipativa a vantaggio del predominio del potere esecutivo e del suo “capo”; tentativo che si è sviluppato anche in Italia, con la riforma Boschi/Renzi, che il popolo italiano ha affossato con lo storico voto del 4 dicembre. Probabilmente anche il popolo turco avrebbe bocciato la riforma se il voto fosse avvenuto in condizioni di libertà e senza brogli. Stando ai dati diffusi, avrebbe vinto il Sì con il 51,2% dei voti, con uno scarto di 1,3 milioni di voti di differenza, ma sono 2,5 milioni le schede sospette di brogli denunciate dalla missione degli osservatori internazionali dell’OSCE. Il referendum si è svolto in condizioni di grave e generalizzata intimidazione, contrassegnate dal prolungamento dello stato di emergenza instaurato dopo il fallito colpo di stato del 15 luglio 2016, che ha portato al licenziamento di circa 150.000 dipendenti pubblici, fra i quali quasi la metà dei giudici e dei pubblici ministeri e un alto numero di docenti universitari, alla chiusura di giornali, di radio e televisioni, di scuole e di associazioni, all’arresto di migliaia di persone con l’accusa di complicità con il terrorismo, fra le quali più di 80 giornalisti e molti esponenti, anche parlamentari e fra questi i due co-presidenti, della seconda forza di opposizione del Paese, il Partito democratico dei popoli. La consultazione elettorale si è svolta in condizioni simili a quelle in cui si svolsero le elezioni politiche in Italia il 6 aprile del 1924, quando il listone del PNF si assicurò il 60% dei voti, dopo una campagna elettorale fondata sul manganello, che rese fisicamente impossibile alle opposizioni di alzare la testa. E’ noto che l’esponente più autorevole dell’opposizione, Giacomo Matteotti, in un drammatico discorso tenuto alla Camera il 30 maggio del 1924, chiese l’annullamento delle elezioni, denunciando una serie di violenze, illegalità ed abusi commessi dai fascisti. La risposta del regime fu il rapimento e l’uccisione dell’on. Matteotti, a cui seguì, due anni dopo, l’esclusione dal Parlamento di tutti i deputati dell’opposizione. Anche oggi l’opposizione democratica in Turchia chiede l’annullamento della consultazione elettorale. Purtroppo non possiamo farci illusioni: il dramma ormai si è consumato.
La reazione a catena del caso Assange
Barbara Spinelli - Il fatto Quotidiano
La via della seta: una trappola o un’opportunità?
Alfonso Gianni
Lettera aperta al segretario generale del PD Nicola Zingaretti
Massimo Villone, Alfiero Grandi, Silvia Manderino, Domenico Gallo