Baghdad 1991, la notte delle bombe di Stefano Chiarini, da Baghdad – gennaio 1991
Sono le 2:30 di notte. Una improvvisa fiammata nei pressi dell’aeroporto internazionale della capitale irachena, seguita dal crepitio della contraerea, sveglia improvvisamente una città già al colmo della tensione. Tutti sanno di che cosa si tratta. La guerra è iniziata.
Il cielo si illumina a giorno sulla linea dell’orizzonte, oltre le palme e le luci limpidissime delle strade che conducono verso l’aeroporto in una delle notti più chiare di questa settimana di tensione,. Squadriglie di bombardieri americani arrivano da ogni direzione, invano inseguiti da una contraerea i cui proiettili scrivono strisce rosse e gialle nella notte come in una sorta di fuochi d’artificio tragici e mortali.
L’esplosione delle bombe e dei missili scuote il terreno sotto la capitale dell’Iraq e si sente chiaramente anche nei solidi rifugi dei grandi alberghi, come in quello Al Rashid dove è ospitata la stampa internazionale. Il rumore delle bombe e della contraerea è assordante per tutta la notte, dalle due e mezza fino a quasi alle sei.
Il fischio dell’aereo in picchiata
La gente si precipita, in preda al panico, nei rifugi lungo le scale dell’hotel Al Rashid immerso improvvisamente nel buio più assoluto. Fermi gli ascensori, interrotta l’erogazione dell’acqua e dell’elettricità. Alcuni ospiti dell’albergo sono in pigiama, ma la maggior parte ha preferito non andare neppure a dormire rimanendo a scrutare ansiosamente il cielo della prima notte dopo l’ultimatum, quella che tutti consideravano come la più pericolosa. Il fischio dell’aereo in picchiata è subito seguito da forti boati e da lingue di fuoco che si alzano dal ministero della difesa, dall’aeroporto, dalle centrali di comunicazione, dalla torre delle trasmissioni, tutti obiettivi colpiti pesantemente dai proiettili americani.
Il bombardamento ha un effetto devastante, decine e decine di incursioni a intervalli di 10–15 minuti dalle 2:30 fino all’alba. E poi ancora alle 5, a mezzogiorno e nel primo pomeriggio al calar della sera, verso le 17. Colpito in pieno il ministero della difesa, dove sarebbe rimasto gravemente ferito anche il ministro iracheno. Non si sa se seriamente o meno. Colpiti anche una raffineria nei pressi della città, il ministero dell’informazione, l’aeroporto e tutti i centri di comunicazione del paese con l’estero. Colpite anche zone civili della capitale.
Si ignora il numero delle vittime, ma dovrebbe essere piuttosto elevato. Oltre 400 gli attacchi aerei condotti dagli F15 americani e dagli aerei inglesi contro oltre 70 obiettivi iracheni. I missili Cruise sono partiti dalle navi ancorate al largo del Golfo e si sono diretti sui loro obiettivi. A Baghdad e nelle altre città dell’Iraq sono stati colpiti industrie, impianti militari e rampe missilistiche.
Nelle sale dell’Hotel Rashid, da diverse ore isolato dal resto del mondo, un funzionario del ministero dell’informazione tiene verso l’ora di pranzo una breve improvvisa conferenza stampa: sarebbero 14 gli aerei nemici abbattuti (americani, inglesi e sembra anche francesi). Poi il funzionario lancia un appello attraverso la radio perché la popolazione non faccia del male ai piloti eventualmente lanciatisi col paracadute.
Con l’arrivo del giorno la capitale irachena trattiene di nuovo il fiato e inizia il conto alla rovescia verso una sera e un’altra notte che potrebbero essere ancora più tragiche della precedente. Tutti sono rimasti a casa o nei pressi dei rifugi, pochissimi i passanti. Poi in serata, verso le 17, le sirene urlano di nuovo e tutti corrono nei rifugi dove passeranno questa ultima e interminabile notte.
Un week-end senza sonno
Da venerdì notte è cominciato il primo week-end di bombardamenti e morte dall’inizio della guerra del Golfo. Un week-end che rimarrà impresso per sempre nella memoria degli abitanti di Baghdad e in quella dei giornalisti stranieri, una settantina in tutto, ancora in attesa di lasciare la capitale irachena. Al calar delle tenebre gli aerei americani,come ormai ogni notte, sono tornati a colpire una città immersa nel buio più assoluto, quasi spenta dall’oscuramento.
Una città apparentemente colta nel sonno ma dove invece nessuno oramai dorme, fin da mercoledì scorso. Ogni momento sembra sia quello che precede l’allarme e il sibilo osceno dalle bombe e dai missili che cadono sulla città. Non serve certo a tranquillizzare la gente di Baghdad il fatto che le sirene urlino solamente pochi secondi prima degli attacchi aerei o, assai spesso, persino dopo che sono cadute le prime bombe o i primi missili hanno colpito i loro obiettivi, in un fragore improvviso e violentissimo che lascia tutti senza fiato. Le notti di questo fine settimana sono state, come le precedenti, limpidissime e terse di paura. Strade vuote al calar della sera, con i rari passanti che si affrettano a prendere l’ultimo autobus o un taxi colto al volo prima che il sole scompaia completamente al di là delle palme lungo il fiume Tigri.
Baghdad è una città fantasma, stretta nell’attesa e nella paura ma anche orgogliosa di resistere alla gigantesca forza degli occidentali, nonostante la fortissima ed evidente disparità tecnologica nei confronti degli Stati uniti.
… nel buio assoluto
Questo è il senso dell’ultima conferenza stampa del ministro dell’informazione, Latif Jassim, apparso in divisa verde oliva come, per la prima volta dall’inizio della crisi, tutti i suoi collaboratori. La conferenza stampa si tiene nel buio di un androne, in piedi, mentre suonano le sirene e tutti si chiedono se faranno in tempo a tornare a casa o in albergo, nei rifugi.
Una conferenza stampa, nelle parole di questo ministro tra i più vicini al presidente Saddam Hussein, ben diversa da quelle che lungo questi interminabili cinque mesi hanno scandito l’evolversi della crisi. Facce tirate, barbe lunghe, occhi arrossati dal sonno, sia dei funzionari iracheni che dei giornalisti presenti. Il punto di vista di Baghdad, nelle parole di Jassin, è molto chiaro: nessun paese arabo ha mai osato sfidare gli Stati uniti e Israele e resistere con le proprie forze così a lungo. Quindi, avendo rotto questo tabù, insieme al mito della guerra lampo alimentato dagli Usa, e continuando a resistere, l’Iraq già si considera il vincitore di questo confronto, per avere insegnato al mondo arabo che è possibile dire no agli Stati uniti.
Poche parole, qualche domanda, poi, sempre al buio, il ministro, i funzionari e i giornalisti corrono affannati verso i rifugi. Cinque minuti dopo, il silenzio e il buio sono strappati dall’urlo delle sirene che annunciano un’altra incursione. E allora si scatena l’inferno. I protagonisti dei bombardamenti, gli aerei americani e inglesi, sono apparentemente assenti, sono su, nel cielo, invisibili. La loro presenza è avvertibile solo dallo scoppio delle bombe che cadono, grandi palle di fuoco che attraversano la notte, dal sibilo degli ordigni, dalle esplosioni,. E dalle distruzioni che lasciano sul loro cammino, dai mucchi di mattoni e terre che troviamo il giorno dopo al posto di edifici e costruzioni: dove sorgeva il centro postale di via Rashid, la torre per le telecomunicazioni che svettava altissima nel nuovo centro della città, segata da un missile Cruise, è caduta nella rosata luce del tramonto come una quercia spezzata. Il ministero della Difesa nella vecchia Baghdad, le zone di abitazione che sorgono alla periferia nord della città, dove i bombardamenti sono più martellanti, o nella centrale di Duran, costruita con tanta dedizione dagli italiani, è già distrutta, e chissà, potrebbe essere toccato, questo compito, ad altri connazionali.
Lo spettacolo dei traccianti
Nella notte, ai rari passanti e ai giornalisti che si attardano nei piani alti dell’Hotel Rashid, loro riservato, dopo essere sfuggiti agli inflessibili addetti alla sicurezza che li vorrebbero nei rifugi, si mostra il terribile spettacolo della morte tecnologica. Gli aerei attraversano il cielo scurissimo, inquadrato dalle grandi vetrate delle stanze dell’albergo, come meteore invisibili, inseguiti dai colpi rossogialli e a forma di stella della contraerea. Di tanto in tanto un rumore diverso, un sibilo assordante, un’esplosione. I Cruise invece arrivano da fuori campo con una traiettoria geometrica parallela all’orizzonte. Dell’aviazione irachena non sembra esserci traccia. Distrutta al suolo, come sostengono gli americani, o tenuta di riserva per un eventuale attacco e non certo utilizzabile per una inutile e disperata difesa, come sostengono a Baghdad?
Ogni giorno i bombardamenti sono sempre più intensi e pesanti. Le incursioni in questo fine settimana sono iniziate ancor prima del calar della notte. Poi fino all’alba. Ognuno a circa mezz’ora di distanza dall’altra. Gli ordigni lanciati sulla città e sui suoi dintorni, laggiù verso la zona del canale dove vi sono molte installazioni militari, sembrano più pesanti del solito e le nuove esplosioni scuotono con tonfi sordi e ripetuti la città. L’intero orizzonte, al di là della torre della televisione e dell’hotel Melia Mansur, è illuminato a giorno dalle esplosioni e dai lampi.
Nel rifugio all’Hotel Rashid
Nei rifugi come quello dell’Hotel Rashid centinaia di persone, in un caldo soffocante, passano la notte dormendo sulla moquette illuminata a giorno dalle fredde luci al neon. Il rumore del generatore elettrico renderebbe a chiunque impossibile dormire. Ma pochi tentano davvero di farlo. Nonostante il rifugio del Rashid sia il posto più sicuro della città, grazie alle protezioni antiatomiche e antichimiche. Anche se non si capisce bene come, nel caso di una esplosione nucleare o dell’arrivo di gas, si potrebbe sopravvivere in questo sotterraneo senza l’acqua, che da mercoledì scorso, cioè dall’inizio dei bombardamenti, non raggiunge più l’albergo.
Alcuni anziani, uno dei quali sragiona a voce alta, sono stati sistemati su delle barelle e sono assistiti dal gentilissimo personale medico dell’albergo. Altri ospiti (l’uso di questo termine suscita sempre una certa apprensione e ilarità dopo la vicenda degli ostaggi) guardano la tv, che trasmette marce militari, informazioni di guerra, propaganda e appelli diretti non soltanto alla popolazione irachena ma anche alle masse arabe, perché scendano in campo a fianco dell’Iraq contro Israele e gli Stati uniti. Con il sottofondo metallico dell’impianto di condizionamento, dall’apparecchio televisivo, posto in un angolo del rifugio, si spande per i grandi stanzoni una delle canzoni più popolari di questi giorni: Baghdad, Baghdad, la più bella delle belle, l’amore è tutto, faremo del genere umano la culla della civiltà.… Suonano più o meno così le parole, nella traduzione inglese dell’anziano professore sfatto dal sonno sino a dimostrare vent’anni di più dei suoi 60 compiuti.
Pochi giornalisti frequentano però il rifugio, convinti che l’albergo non dovrebbe comunque essere colpito proprio per la presenza della stampa. Ma non è solo questo il motivo per cui si evita il rifugio. Il caldo, laggiù nei sotterranei, è soffocante, impossibile dormire, impossibile sapere cosa stia effettivamente accadendo. Molti preferiscono cenare insieme ad altri colleghi in questo o quell’ufficio coperti dal buio più assoluto dell’oscuramento, accompagnando il cibo con una buona bottiglia di vino. Un modo assai più efficace di esorcizzare quella paura che non puoi non sentire dentro di te quando si alza il rumore assordante della battaglia aerea e delle bombe che esplodendo scuotono edifici e finestre. E, soprattutto, non puoi non chiederti se potrai rivedere il giorno.
Silenzio sulle vittime civili
Mancano notizie attendibili sulle vittime di questa guerra. Gli Stati
uniti e l’Occidente cercano di nasconderne il numero per
evitare le polemiche che già sono esplose intorno alla guerra del
Golfo. Le autorità locali da parte loro non sembrano da meno e non
intendono fornire dati sull’«efficacia» dei bombardamenti né
rilasciare notizie che potrebbero, a loro parere, demoralizzare
l’opinione pubblica interna e quella araba. Certo, di vittime
ve ne dovrebbero già essere state più di quanto non si creda, anche
perché l’«operazione chirurgica», tanto ostentata nei primi
giorni dei bombardamenti, sembra lasciar il passo a attacchi
indiscriminati. Soprattutto fuori Baghdad e nelle periferie.
Anche a pochi passi dallo stesso Hotel Rashid.
Sabato
pomeriggio, verso le tre, un gruppo di giornalisti stava lasciando
l’albergo distribuito su quattro taxi quando un tremendo boato,
spentosi poi in un rovinio di calcinacci e pezzi di ferro, ha
scosso l’intero edificio. Un aereo alleato ha pensato bene di
lanciare un missile contro il piccolo corteo di auto che stava
lasciando l’albergo, sbagliando – fortunatamente – la mira. Un
obiettivo «chiaramente» militare. Viene da chiedersi cosa possa
avvenire lontano dagli occhi della stampa. Laggiù in Kuwait, per
esempio, dove missili Cruise e bombe si rovesciano senza sosta
sulla città. O a Bassora, nel sud dell’Iraq, o nel
lontano nord.
Dal confine giordano
Lasciando Baghdad verso il confine giordano lo spettacolo che si presenta ai nostri occhi è impressionante: aerei che attraversano il cielo, le lunghe colonne di fumo nero e intenso, lungo tutto l’orizzonte, a segnalare i luoghi dove una volta sorgevano fabbriche, uffici, abitazioni. Dirigendosi a tutta velocità verso la frontiera giordana su taxi dai costi proibitivi – e per questo del resto disposti a rischiare il tutto per tutto e portare i giornalisti stranieri fuori città, verso Amman – non c’è località, lungo le centinaia di chilometri che si percorrono, che non sia stata colpita: Abu Ghraib, Falluja, Ramadi, Ar Rutba. Ogni uscita dall’autostrada deserta è segnalata poco lontano, dopo quelle laggiù all’orizzonte, da alcune colonne di fumo. Aerei americani e della Nato sfrecciano nel cielo sopra l’unica strada di comunicazione con la Giordania, le auto si fermano improvvisamente nella notte, spegnendo i fari, finché laggiù all’orizzonte, verso la capitale, non si accendono i primi bagliori delle bombe che cadono sulla città.
Una sensazione di sollievo fortissima e primitiva: “Questa volta non è toccato a noi”, un sorso di vino o di birra e via di nuovo nella notte e nelle tenebre appena incrinate dalle luci di posizione. Tenere gli anabbaglianti o gli abbaglianti sarebbe troppo pericoloso. Via ancora, finché nel cielo stellato, stupendo come sempre in questi paese, non si sente di nuovo il rombo degli aerei. Le macchine si fermano di nuovo e c’è chi per maggiore sicurezza lascia le auto e si allontana verso i campi, per cercare protezione nel buio. Così per centinaia di chilometri, mentre in senso opposto si muovono colonne di mezzi militari diretti verso il fronte (…).
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E’ una cosa mostruosa di Luigi Pintor sul Manifesto del 17 gennaio 1991
Vederla è peggio che immaginarla.
Vederla come spettacolo, tutto il mondo seduto a guardare, ad ascoltare quegli automi della televisione: è la terza ondata, la quinta ondata, il cielo è in fiamme, si sente il fragore delle bombe?
Oh, i morti ancora non si vedono, ma domani forse sì. Quanti saranno? Pochi, è ancora il primo giorno.
E’ una guerra giusta contro il tiranno, riporteremo sul trono l’emiro. Non sarà Saddam a morire e nemmeno Bush, ma certamente una quantità di iracheni di ogni età e condizione, forse molti americani, forse anche qualche italiano, e poi non si sa. E anche noi muoriamo, fatti a pezzi dentro di noi.
Il declino dell’umanità, la degenerazione dell’umanità, non sta in questo massacro annunciato e attuato. Sta in questo spettacolo mai visto, in questa modernità oscena; assistiamo a Hiroshima.
Lo spettacolo è offerto gratis dalla Comunità internazionale, ventotto nazioni evolute e una gettata allo sbaraglio. Così finisce, o inizia il millennio.
E poi? Proviamo un senso di nausea. Palestinesi, israeliani, arabi e poi americani, europei, russi, dentro una macchina di distruzione che si moltiplica, in un mare di denaro, di petrolio, di fame e di morte.
E una Italia irriconoscibile.
Nausea sì, ma anche rivolta dell’animo.
Che ognuno dica di no, protesti, scioperi, come può, dentro di sé e nei propri comportamenti