Un brutto giorno per la Repubblica. Come era nelle previsioni, la
Camera approva la riforma costituzionale Boschi-Renzi, già votata in
Senato. 357 sì, 125 no, 7 astenuti, che alla Camera non contano.
Movimento 5 Stelle fuori dall’Aula. Numeri certo favorevoli a Renzi.
Ma è facile vedere, richiamando il consenso ai soggetti politici
realmente espresso nel voto del 2013, che una Camera depurata dalla
droga del premio di maggioranza dichiarato illegittimo con la
sentenza 1/2014 della Corte costituzionale oggi avrebbe bocciato la
proposta. Non è la Costituzione della Repubblica. È la
costituzione del Pd con escrescenze. Una costituzione di minoranza.
Questo conferma tutte le critiche sulla mancanza di
legittimazione a riformare la Costituzione di un parlamento
fulminato nel suo fondamento elettorale. E dunque non abbiamo
affatto un paese più semplice e giusto, come esulta Matteo Renzi.
Invece, abbiamo in prospettiva una Costituzione che non riflette la
realtà del paese.
Il voto della Camera ci consegna quel che sarà, molto probabilmente, il testo definitivo della riforma. Si richiede un nuovo passaggio in Senato per chiudere con l’approvazione di un identico testo la fase della prima deliberazione richiesta dall’art. 138 della Costituzione. Ma è ragionevole prevedere che Renzi alzerà barricate contro ogni ulteriore modifica, che potrebbe del resto toccare solo le parti ora emendate dalla Camera.
Immutata la sostanza. Lievemente migliorata la “ghigliottina” per cui il governo poteva pretendere a data certa il voto su un testo di sua scelta. Un vero e proprio potere di vita o di morte sui lavori parlamentari. Ora rimane solo la data certa, e non è poco. Fino ad oggi sarebbe stata materia riservata all’autonomia delle Camere attraverso i regolamenti parlamentari. Da domani — scritta in Costituzione — sarà invece un vincolo sul parlamento nei confronti del governo. Peggiorata la riforma del Titolo V, dove viene annacquato con inedite complicazioni il proposito — in sé apprezzabile — di una semplificazione del rapporto Stato-Regioni.
Ma su tutto prevale la inaccettabile scelta — che rimane — di un Senato non elettivo, di seconda mano e di doppio lavoro, tuttavia investito di poteri rilevanti, tra cui spicca quello di revisione della Costituzione. Mantengono piena validità le critiche più volte espresse su queste pagine. Soprattutto per la sinergia con l’Italicum, che va colta in tutto il suo significato. E se ne accentua il rilievo nel momento in cui la riforma costituzionale rimane pessima, e l’Italicum peggiora. Al già inaccettabile impianto di base, inosservante dei principi posti con la sentenza 1/2014, si aggiungono ora il premio alla sola lista, la beffa dei capilista bloccati e candidabili in più collegi, il ballottaggio. Il colpo alla rappresentatività delle istituzioni e ai processi democratici si aggrava.
La fine dichiarata da Berlusconi del patto del Nazareno aveva suscitato qualche speranza. La lettera dei “verdiniani” — Verdini è notoriamente in odore di renzismo — fa nascere dubbi sul controllo di Berlusconi sul partito. Forse una parte dei suoi si appresta a cambiare padrone, se non casacca. Nel prossimo voto in Senato — ancora in prima deliberazione — non sarà prescritta una particolare maggioranza. Ma sarà una prova generale per la seconda deliberazione ex art. 138, per cui si richiede il voto favorevole della metà più uno dei componenti l’assemblea. In Senato il dissenso potrebbe allora essere decisivo. E affossare la riforma trascinerebbe con sé anche l’Italicum, che nulla prevede per il Senato assumendone il carattere non elettivo.
Sapremo dunque già nel voto che si avvicina se la sinistra del Pd ha numeri e attributi. Sapremo se il patto del Nazareno è davvero morto. Berlusconi ha inteso fare a Renzi lo stesso sgambetto che fece a D’Alema nel 1997, quando affossò in Aula la proposta che Fi aveva votato in Commissione bicamerale Allora, pur avendo i numeri, la maggioranza di centrosinistra si fermò. Questa volta non gli è riuscito. In Senato provaci ancora, Silvio. Magari faremo il tifo per te.
Nel frattempo, bisognerà spiegare al popolo sovrano che nelle istituzioni si forgiano le politiche di governo. Per le donne e gli uomini di questo paese le scelte istituzionali non sono indifferenti. Istituzioni semplificate e poco rappresentative, assemblee elettive con la mordacchia, governi che funzionano come giunte comunali (formula renziana), partiti della nazione producono politiche conservatrici, disattente verso i diritti, subalterne ai poteri forti, sorde alle diversità, e invece tolleranti verso le diseguaglianze. Già accade.
Con pensosa pacatezza Bersani finalmente avverte che l’Italicum non è votabile per la sinergia perversa con la riforma costituzionale. Corra ai ripari. Qualcuno dovrebbe spiegare a lui e all’evanescente sinistra Pd che la ditta li ha già messi in cassa integrazione a zero ore. Anche il nuovo partito non più leggerissimo di cui Renzi favoleggia li metterebbe in mobilità. Per loro, solo contratti a tutele decrescenti.