Alle battute polemiche di Matteo Renzi preferisce non rispondere. “Io replico agli argomenti, non alla propaganda elettorale”. E se il premier dice che “i grandi professori hanno perso anche di fronte al Tar”, l’ex presidente della Corte Costituzionale, Valerio Onida, si limita a ricordare che il ricorso da lui presentato insieme alla professoressa Barbara Randazzo è in realtà un altro. Dietro le schermaglie, il nodo del contendere è in punta di diritto e riguarda il quesito del referendum costituzionale del 4 dicembre. Onida, in realtà, di ricorsi ne ha presentati due: uno al Tar del Lazio (che dovrebbe esaminarlo il 17 novembre), l’altro al tribunale civile di Milano, che dovrebbe decidere il 27 ottobre. La scorsa settimana, però, il Tar ha già bocciato le richieste avanzate da M5s e Sinistra italiana per stoppare il quesito. “Si tratta di due cose diverse”, sottolinea Onida, che critica una riforma "figlia della cultura della fretta e dello scontro", dietro cui si cela l'intento di traghettare il paese verso "l'elezione diretta del premier".
In cosa consiste la differenza e perché pensa che i due ricorsi possano avere esiti diversi?
Quel ricorso puntava sul fatto che il quesito sia ingannevole. Quello
che abbiamo presentato noi, invece, solleva essenzialmente il problema
della disomogeneità del quesito stesso, che si riferisce ad oggetti e
contenuti multipli e molto diversi tra loro. Questo lo rende lesivo
della libertà di voto dell'elettore perché gli viene sottoposta un’unica
domanda a cui può rispondere con un Sì o con un No, mentre ad essere
oggetto di modifiche costituzionali sono molti aspetti diversi ed
eterogenei: per citarne alcuni, la riforma del Senato, i rapporti tra
Stato e Regioni, l'elezione del presidente della Repubblica, la
disciplina del referendum. In tal modo, come ha detto la Corte
costituzionale a proposito del referendum abrogativo, si verrebbero “in
sostanza a proporre plebisciti o voti popolari di fiducia, nei confronti
di complessive inscindibili scelte politiche dei partiti o dei gruppi
organizzati che abbiano assunto e sostenuto le iniziative referendarie”.
Nel respingere il ricorso di Sinistra italiana e M5S,
però, il Tar ha spiegato che c’era un “difetto di giurisdizione”. In
pratica che non era di sua competenza. Perché nel suo caso dovrebbe
essere diverso?
Nella sentenza il Tar rinvia la questione alle decisioni adottate o che
potrebbero essere adottate dall’ufficio centrale della Cassazione. Ma
noi abbiamo fatto ricorso come semplici elettori. Dal momento che non
siamo promotori del referendum, non potevamo e non potremmo interloquire
direttamente con l’ufficio centrale e chiedere ad esso di sollevare
questione di costituzionalità della legge davanti alla Corte
costituzionale: che è ciò che noi chiediamo al Tar di fare.
Torniamo al merito della riforma. Quali sono i punti su cui la ritiene sbagliata?
Sul
Senato la mia tesi è che l’idea di partenza fosse buona ma sia stata
realizzata male, perché non si dà luogo a una vera ed efficace
rappresentanza delle istituzioni regionali. I senatori sarebbero
espressione di un voto proporzionale da parte del consiglio regionale e
dunque porterebbero in Senato la voce non della Regione ma dei
rispettivi partiti. I sindaci che dovrebbero essere eletti senatori non
rappresenterebbero né i Comuni, non essendo scelti da essi, ma dai
consigli regionali, né la Regione. Inoltre il nuovo Senato avrebbe
funzioni debolissime e avrebbe poca possibilità di incidere proprio
sulla legislazione che interessa di più le Regioni, in ordine alla quale
invece avrebbe dovuto avere una funzione rilevante.
Non è positiva la fine del bicameralismo perfetto?
Che
la doppia fiducia al Governo sia inutile e ripetitiva è vero. Non è
vero invece che il bicameralismo sia responsabile di un procedimento
legislativo troppo lungo e complicato. Qui è la diagnosi ad essere
sbagliata. Il problema dell’Italia è che si approvano troppe leggi,
fatte spesso troppo in fretta e male. I ritardi, quando ci sono, sono
dovuti a fattori politici, non costituzionali e procedimentali. Il punto
più critico di questa riforma è poi nel rapporto tra Stato e Regioni.
Perché?
La scelta sbagliata sta nell’aver voluto rovesciare l’impostazione del 2001 e di aver voluto trasferire alla competenza esclusiva dello Stato non solo quelle due o tre materie che sono di indubbio carattere nazionale come le grandi infrastrutture di trasporto o energetiche, ma tutte le materie tipicamente di interesse regionale, come sanità, assistenza o governo del territorio, sostenendo che le Regioni intralciano e creano incertezze e conflitti. Questi nascono più spesso dalla pretesa dello Stato di legiferare su tutto fin nei minimi particolari. Abolire le competenze legislative “concorrenti”, in cui lo Stato detta i principi, la Regione legifera nel dettaglio, è un errore. E’ un ritorno al centralismo, un enorme passo indietro. Senza dire della clamorosa contraddizione per cui le nuove norme sulle Regioni non varrebbero per le Regioni a statuto speciale, per le quali si rimanda agli statuti da rivedere in un futuro indeterminato.
Una delle obiezioni più frequenti contro questa riforma è il problema del famoso “combinato disposto” con la legge elettorale. Lei pensa che invece i due temi vadano scissi?
Questa riforma non va
bene di per sé, per le motivazioni che ho accennato. Tra essa e la legge
elettorale il nesso non è tecnico-giuridico, visto che parliamo di una
revisione costituzionale e di una legge ordinaria distinta dalla prima.
Tuttavia, il nesso è nell’ispirazione che c’è dietro: la cultura della
fretta - dove la parola d’ordine non è fare meglio, ma ‘semplificare’ ad
ogni costo, anche dove questa esigenza non c’è - la cultura dello
scontro, per cui il Parlamento viene visto come un luogo in cui si perde
tempo o in cui una maggioranza monocolore ed una opposizione dai molti
volti si limitano a scontrarsi, mentre le decisioni politiche devono
essere prese dall’esecutivo, o meglio dal premier e dai suoi
collaboratori. L’intento è quello di arrivare sostanzialmente
all’elezione diretta del premier: si prevede infatti, nella legge
elettorale, che debba vincere un solo partito ottenendo la maggioranza
assoluta, quale che sia il livello di partenza del suo consenso, e che
presentando la sua lista il partito debba indicare nome e cognome del
‘capo della forza politica’, destinato quindi, in caso di vittoria, ad
essere presidente del Consiglio. In pratica, è una elezione diretta del
premier introdotta in maniera surrettizia.
Renzi non rinuncia a mandare frecciatine ai “professori”, da
ultima, proprio quella sul ricorso bocciato dal Tar. Cosa gli risponde?