Pur di evitare il voto ed il rischio di una nuova sconfitta elettorale, il 17 marzo il governo ha come noto varato in tutta fretta un decreto legge (n.25/2017) che, recependo in toto la domanda referendaria, cancella dal mercato del lavoro i voucher, ovvero l’istituto del lavoro accessorio. Resta ovviamente l’incertezza legata alla necessità della conversione in legge del decreto, ma è difficile pensare che la strada intrapresa dal governo con tale decisione possa venire smentita in sede parlamentare. Sembra così destinato a scomparire un istituto inventato nel 2003 dalla c.d. riforma Biagi al fine di favorire l’emersione del lavoro sommerso di studenti e soggetti a rischio di esclusione sociale e divenuto poi strumento di copertura del lavoro nero grazie alla sua sostanziale liberalizzazione operata dalla legge Fornero del 2012 e dal Jobs Act. Le proposte di ridurne l’utilizzo, vuoi limitandolo alle sole famiglie vuoi permettendolo anche alle imprese senza dipendenti, sono state accantonate per il timore che un mero maquillage della disciplina vigente non fosse sufficiente per convincere la Cassazione a ritenere superata la materia oggetto del referendum.
Vittoria su tutta la linea dunque? Non c’è dubbio che la battaglia referendaria sia stata vinta senza neppure bisogno di combatterla, tuttavia proprio la fretta con la quale il governo si è arreso induce a non cedere a trionfalismi ed a mantenere alta l’attenzione sulla future iniziative in materia di mercato del lavoro.
Il rischio infatti è che i voucher rinascano dalle loro ceneri sotto un’altra forma, con effetti ancora più destrutturanti del mercato del lavoro. Questo timore è avvalorato dalle dichiarazioni di parte governativa in merito alla possibilità di importare in Italia il modello tedesco dei mini-jobs, onde evitare che l’eliminazione dei voucher si traduca in un incentivo a ricorrere al lavoro nero da parte di chi sino ad oggi ne ha beneficiato. Ciò comporterebbe il varo di una nuova forma contrattuale, contraddistinta da limiti salariali ed orari (in Germania, rispettivamente di 450 euro mensili e 15 ore settimanali), cui sono associati oneri contributivi e (soprattutto) fiscali estremamente vantaggiosi per il datore.
Diventerebbe così ancor più chiara la ragione per cui si è proceduto all’immediata e radicale cancellazione della normativa vigente, invece che ad una sua rimodulazione funzionale a limitarne l’ambito di applicazione. Liberatosi dalla scadenza referendaria, il governo può adesso con calma mettere mano ad una nuova disciplina che faccia rientrare dalla finestra ciò che è uscito dalla porta, per altro garantendo a chi ha già acquistato i voucher prima dell’entrata in vigore del decreto la possibilità di utilizzarli fino al 31 dicembre di quest’anno.
Né, se tale scenario si concretizzasse, consolerebbe il fatto che ai mini-jobs alla tedesca sarebbero associati diritti dei quali i lavoratori accessori erano privi (ferie, maternità e malattia, in primis). Proprio questi diritti attestano infatti come una simile tipologia contrattuale sia configurata come una modalità strutturale di impiego, tant’è che essa in Germania interessa ormai circa un quarto della forza lavoro. Una forza lavoro ingabbiata nella trappola della precarietà, con salari da fame e destinati ad un futuro senza pensione, visti i bassi oneri contributivi associati al suo utilizzo. Per tacere del fatto che il ricorso ai mini-jobs ha favorito la diffusione del lavoro nero anche in Germania, come sempre avviene quando vantaggi fiscali e contributivi si associano ad un tetto retributivo e orario di impiego del lavoratore. Basterebbe seguire il dibattito che nella patria dei mini-jobs ormai da anni accompagna le proposte tese a riformare questo controverso istituto – diffusosi grazie alla riforma Hartz del 2003 – e le radicali critiche che nei suoi confronti si levano quotidianamente dal mondo sindacale, per rispondere a quanti continuano ad additare il modello tedesco come un esempio virtuoso di regolazione del mercato del lavoro.
Il passaggio dai voucher ai mini-jobs, lungi dall’arginare la precarietà, finirebbe allora per favorirne l’ulteriore diffusione, perché mentre i primi hanno interessato pur sempre una percentuale marginale di lavoratori, i secondi si candiderebbero a diventare la forma normale di impiego per interi settori del mercato del lavoro, specie nell’ambito dei servizi. E la loro introduzione nell’ordinamento italiano renderebbe quella ottenuta con il varo del decreto 25/2017 una beffarda vittoria di Pirro.
* Docente Diritto del lavoro Università di Siena