Può succedere che, nella pausa di una lunga intervista, ti ritrovi in una cucina affacciata su un terrazzo precocemente fiorito, a far merenda con tè al gelsomino. E capita pure che l’intervistato t’interroghi all’improvviso sui romanzi dostoevskijani, l’Idiota in particolare. “A un certo punto, ricorderà, Ippolít dice a Myskin: ‘Principe, lei un giorno ha detto che il mondo sarà salvato dalla bellezza’. In russo la parola mir vuol dire mondo e, allo stesso tempo, pace”. Per fortuna partecipa anche la figlia del professor Zagrebelsky, Giulia, studentessa di Lettere. “Abbiamo presente, per esempio, l’orrore in cui vivevano gl’immigrati di Rosarno? È pensabile che fossero in pace con i propri simili? Chi a Taranto è costretto tra le polveri dell’Ilva, non è nelle condizioni di spirito di chi respira aria di montagna. Chiediamoci se viviamo in un mondo bello o sempre più brutto, in ambienti disumani, dominati dalla violenza, dalla sopraffazione, dallo sfruttamento. Altro che bellezza! Che salvi il mondo, questo nostro mondo, è una frase da cioccolatino. Infatti, l’hanno ripetuta in molti, autocompiacendosi, in occasione dell’Oscar a La grande bellezza, come se fosse quella di Myskin. Oggi si parla per non dire nulla. E si è ascoltati proprio per questo. Il vuoto non disturba e, se è detto in certo modo, è anche seducente. In un “Miss Italia” di qualche anno fa, una ragazza, per presentarsi, ha pronunciato una frase memorabile: ‘Credo nei valori e mi sento vincente’. Una sintesi perfetta del grottesco che c’è nel tempo presente”.
Professore, che impressione le hanno fatto i discorsi del neo premier?
Mah!
Non tutto piace a tutti allo stesso modo. In attesa di smentite, mi par
di vedere, dietro una girandola di parole, il blocco d’una politica che
gira a vuoto, funzionale al mantenimento dello status quo. Una volta
Eugenio Scalfari e Giuseppe Turani definirono ‘razza padrona’ un certo
equilibrio oligarchico del potere. Oggi, piuttosto riduttivamente, la
chiamiamo ‘casta’. Un’interpretazione è che un sistema di potere
incartapecorito e costretto sulla difensiva, avesse bisogno di rifarsi
il maquillage. Se questo è vero, è chiaro che occorrevano accessori,
riverniciature: il renzismo mi pare un epifenomeno. Vorrei dire agli
uomini (e alle donne) nuovi del governo: attenzione, voi stessi, a non
prendere troppo sul serio la vostra novità.
Il filo rosso
di queste conversazioni è come sta l’Italia. Le risposte non sono quasi
mai state incoraggianti: ci siamo chiesti quali responsabilità abbia la
classe dirigente.
La classe dirigente – intendo coloro che
stanno nelle istituzioni, a tutti i livelli – è decaduta a un livello
culturale imbarazzante. La ragione è semplice: di cultura politica, la
gestione del potere per il potere non ha bisogno. Sarebbe non solo
superflua, ma addirittura incompatibile, contraddittoria. Potremmo usare
un’immagine: c’è una lastra di ghiaccio, sopra cui accadono le cose che
contano, sulle quali però s’è persa la presa; cose rispetto a cui siamo
variabili dipendenti: la concentrazione del potere economico e gli
andamenti della finanza mondiale, l’impoverimento e il degrado del
pianeta, le migrazioni di popolazioni, per esempio. Ne subiamo le
conseguenze, senza poter agire sulle cause. Tutto ciò, sopra la lastra.
Sotto sta la nostra ‘classe dirigente’ che dirige un bel niente. Non
tenta di mettere la testa fuori. Per far questo, occorrerebbe avere idee
politiche e almeno tentare di metterle in pratica. Che cosa resta sotto
la crosta? Resta il formicolio della lotta per occupare i posti
migliori nella rete dei piccoli poteri oligarchici, un formicolio che
interessa i pochi che sono in quella rete, che si rinnova per
cooptazione, che allontana e disgusta la gran parte che ne è fuori. La
politica si riduce alla gestione dei problemi del giorno per giorno, a
fini di autoconservazione del sistema di potere e dei suoi equilibri.
Pensiamo a chi erano gli uomini che hanno guidato la ricostruzione
dell’Italia dopo la guerra: Parri, Nenni, De Gasperi, Einaudi,
Togliatti, per esempio. Se li mettiamo insieme, non è perché avessero le
stesse idee ma perché ne avevano, e le idee davano un senso politico
alla loro azione. Le cose che, oggi, vengono dette e fatte sono pezze,
sono rattoppi d’emergenza, necessari per resistere, non per esistere.
Non è politica. Nella migliore delle ipotesi, se non è puro ‘potere per
il potere’, è gestione tecnica. La tecnica guarda indietro; la politica
dovrebbe guardare avanti.
Il governo Monti qualche disastro tecnico l’ha fatto.
La
tecnica come surrogato della politica è un’illusione. Se lei chiama un
idraulico perché ha il lavandino otturato, si aspetta che, a lavoro
ultimato, lo scarico del lavandino funzioni. Non chiede all’idraulico di
cambiarle la cucina. Così, anche i tecnici in politica. Gestiscono i
guasti nei dettagli. I governi tecnici per loro natura sono
conservatori, devono mantenere l’esistente facendolo funzionare .
Dovrebbe essere la politica a immaginare la cucina nuova. E, fuor di
metafora, dovrebbe avere di fronte a sé idee di società, programmi,
proposte di vita collettiva e, soprattutto nei momenti di crisi come
quello che attraversiamo, perfino modelli di società.
Giovani parlamentari e governanti dovrebbero avere un’idea del mondo.
Basta essere nuovi e giovani? No. Quello che conta è la struttura dei
poteri cui si fa riferimento e di cui si è espressione. Una volta si
parlava di blocco sociale, pensando alle ‘masse’ organizzate in partiti
di appartenenza, in sindacati d’interessi consolidati. Si pensava alle
classi sociali. Oggi, siamo lontani da tutto questo, in attesa della
ricomposizione di qualche struttura sociale che possa esprimere
esigenze, richieste e forze propriamente politiche. In questo vuoto
politico-sociale che cosa esiste e prospera? La rete degli interessi più
forti. È questa rete che esprime i dirigenti attraverso cooptazioni. La
democrazia resiste come forma, ma svuotata di sostanza. Se la si
volesse rinvigorire, occorrerebbe una società capace di
auto-organizzazione politica, ciò che una volta sapevano fare i partiti.
Oggi, invece, sono diventati per l’appunto, canali di cooptazione, per
di più secondo logiche di clan e di spartizione dei posti. Così, non si
promuove il tanto necessario e sbandierato rinnovamento, ma si
“allevano” giovani uguali ai vecchi. Ecco la parola: il rinnovamento
sembra molto spesso un ‘allevamento’. Il resto è apparenza: velocità,
fattività, decisionismo, giovanilismo, futurismo, creativismo ecc. Tutte
cose ben note e di spiegabile successo, soprattutto in rapporto con
l’arteriosclerosi politica che dominava. Ma, la novità di sostanza
dov’è? La ‘rottamazione’ a che cosa si riduce? Tanto più che nelle
posizioni-chiave del ‘nuovo’ troviamo continuità anche personali che
provengono dal ‘vecchio’ e la soluzione di nodi che ci trasciniamo dal
passato è continuamente accantonata, come il cosiddetto conflitto
d’interessi.
L’impellente necessità di modificare
l’assetto costituzionale è un refrain che abbiamo ascoltato da più
parti, negli ultimi anni.
Sì. Le istituzioni possono sempre
essere migliorate, rese più efficienti, eccetera. Ma, a me pare che esse
siano diventate il capro espiatorio di colpe che stanno altrove,
precisamente nelle difficoltà che incontra un aggregato di potere che
sempre più difficoltosamente riesce a mediare e tenere insieme il quadro
delle compatibilità, in presenza di risorse pubbliche da distribuire
sempre più scarse, e in presenza per di più d’una contestazione diffusa.
Anche in passato, al tempo di Berlusconi al governo, è accaduto
qualcosa di simile, ma non di uguale. L’insofferenza nei confronti della
Costituzione a me pare derivasse allora dalle esigenze di un potere
aggressivo. Oggi, l’atteggiamento è piuttosto difensivo. I fautori delle
‘ineludibili’ modifiche costituzionali dicono: c’è bisogno di
cambiamenti per governare meglio, con più efficienza. Ma lo scopo
dominante sembra l’autodifesa. Si tratta di ‘blindarsi’, per usare una
parola odiosa molto in voga. Il terrore delle elezioni, la vanificazione
dei risultati elettorali, i ‘congelamenti’ istituzionali in funzione di
salvaguardia vanno nella stessa direzione.
“Vanificazione dei risultati elettorali”: una cosuccia non da poco in una democrazia.
La
grande maggioranza degli elettori si è espressa a favore della fine del
berlusconismo. Invece è stato ricreato un assetto
governativo-parlamentare nel quale un cemento tiene insieme tutto quel
che avrebbe dovuto essere separato. Il Parlamento attuale, sebbene non
possa considerarsi decaduto per effetto della legge elettorale
dichiarata incostituzionale dalla Consulta, dovrebbe considerarsi
gravemente privato di legittimazione democratica . Ma si fa ormai finta
di niente. Non bisognerebbe far di tutto per rimettere le cose a posto?
Larghe intese versus Grillo.
Le
larghe intese sono la negazione della dimensione politica. Sono il
regime della paralisi, della stasi. Platone paragona il buon politico al
buon tessitore, al buon nocchiero, al buon medico. Nei suoi dialoghi,
non è mai detto che il politico è colui che s’immagina come debba essere
la convivenza nella polis: non si aveva nell’antichità l’idea che la
politica fosse fatta di contrapposizione di modelli. L’idea della
politica come scelta è una novità moderna. Oggi sembra che si viva in un
eterno presente, in cui una posta di natura politica non esiste. Se non
ci sono scelte, non c’è politica, e se non c’è politica non c’è
democrazia, ma solo conflitti personali, di gruppo o di clan per posti,
favori e, nel caso peggiore, garanzie d’immunità.
Quindi siamo senza futuro.
Finché
la palude non viene smossa. Perché i cittadini vanno sempre meno a
votare? Una volta si diceva ‘son tutti uguali’, intendendo ‘sono tutti
corrotti’. Ma oggi è peggio, si pensa: ‘tanto non cambia nulla’. È un
effetto della stasi politica. Il Movimento 5 Stelle è nato col
dichiarato intento di smuovere la palude, addirittura di investirla con
una burrasca che rovesci tutto. Una negazione, dunque. Ma, la politica
deve contenere anche un intento costruttivo. Questo, finora, non è
visibile o, almeno, non è percepito. Non che sia molto diverso, presso
gli altri partiti, solo che questi sono già radicati e godono perciò del
plusvalore che viene dall’insediamento istituzionale. Per chi si
affaccia, un’idea chiara e forte del ‘chi siamo’ e ‘per cosa ci siamo’ è
indispensabile. La tabula rasa e la rete non sono programmi. Non lo è
nemmeno la lotta alla corruzione che, di per sé, rischia d’essere solo
una competizione per la sostituzione d’una oligarchia nuova a una
vecchia. Oltretutto, la storia e la stessa ‘materia del potere’ mostrano
che nella politica la lotta contro la corruzione è senza prospettiva.
Contro la corruzione devono valere le istituzioni di controllo e
l’intransigenza dei cittadini. La politica è intrinsecamente debole. La
ragione sta in quella che, all’inizio del secolo scorso, è stata
definita la ‘ferrea legge delle oligarchie’, il che significa che i
grandi numeri, per essere governati, hanno bisogno dei piccoli. I
piccoli – e l’osservazione vale per tutti, anche per i 5 Stelle – prima o
poi si chiudono in se stessi e si alimentano con la corruzione,
alimentandola a propria volta. In difetto di politica, alla corruzione
non c’è limite perché essa, nei regimi autoreferenziali, non è la
patologia, ma la fisiologia del potere. Se si vuole: è la fisiologia
dentro una patologia.
Senza speranza, dunque?
Siamo
di fronte a un bivio. Da una parte c’è il progressivo arroccamento che,
prima di implodere, passerebbe attraverso misure, dirette o indirette,
contro la democrazia e la Costituzione. Dall’altra, la rianimazione
della politica e la riapertura dei canali della partecipazione, che
dovrebbe portare al rafforzamento della democrazia e della Costituzione.
La prima strada è pericolosa anche per chi volesse percorrerla, perché
l’inquietudine sociale, prima o poi, esploderebbe con esiti che non
vorremmo nemmeno immaginare. La seconda è difficile perché la politica
non s’inventa a tavolino scrivendo documenti, ma si costruisce
quotidianamente nel rapporto con i bisogni, le aspirazioni, le
difficoltà e i dolori dei cittadini.
Cosa pensa della decisione di non chiedere un passo indietro ai sottosegretari indagati?
La
giovane ministra per i rapporti col Parlamento ha detto che non si
chiede a qualcuno di dimettersi solo perché inquisito. Giusto.
Altrimenti, la politica sarebbe in balia non solo, o non tanto, della
discrezionalità dei giudici, ma soprattutto di denunce pretestuose o
calunniose, alle quali il magistrato deve dare corso. La questione però
sta in quel “solo”. Politica e giustizia hanno logiche diverse. Nulla
vieta al governo di difendere – fino a un certo punto – i suoi inquisiti
con le ragioni che gli sono proprie, cioè con ragioni politiche. Ma
deve spiegare perché lo fa, pur in presenza di motivi di sospetto; deve
assumersene la responsabilità; deve giustificare perché abbandona uno e
protegge un altro. Non basta dire che si tratta ‘solo’ di procedimenti
penali avviati e non conclusi (con una condanna). La presunzione
d’innocenza non c’entra nulla con la dignità della politica.
Lei è mai stato tentato dalla politica?
Ciò
cui mi sento più adatto è l’insegnamento. Per la politica, soprattutto
per la politica, occorrerebbe una vera vocazione. Ricorda la conferenza
di Max Weber intitolata, per l’appunto, la politica come
professione-vocazione? Ecco: non sento la vocazione. C’è poi una
considerazione che riguarda un potenziale conflitto d’interesse. Chi si
occupa di attività intellettuali deve essere disinteressato
personalmente. Ancora citando Weber: non deve cedere alla tentazione di
mettere se stesso, e i suoi interessi, davanti all’oggetto dei suoi
studi. Potrebbe esserci la tentazione di dire cose e sostenere tesi non
per amore della verità (la piccola verità che si può andar cercando), ma
per ingraziarsi questo o quel potente che ti può offrire, arruolandoti,
una carriera politica.
Perché la politica non attrae più i migliori?
Una
volta avere in famiglia un deputato o un senatore era come avere un
cardinale. Oggi, talora, ci si vergogna perfino. Ha visto quanti
‘rifiuti eccellenti’, opposti alla seduzione di un posto al governo? Se
la politica non ha prospettive ma è semplicemente un girone d’affari,
non servono politici, servono affaristi.
Vota?
Ho
sempre votato, malgrado tutto. C’è una pagina di ‘Non c’è futuro senza
perdono’ del premio Nobel per la Pace e arcivescovo di Città del Capo,
Desmond Tutu, in cui si descrive la coda al seggio dei neri del suo
Paese che, acquistati i diritti politici dopo l’apartheid, per la prima
volta vanno a votare, piangendo. Attenzione a dire che il voto è un
orpello.
Cosa pensa dell’Italicum nato dall’accordo tra il Pd e Forza Italia?
Non
so che cosa ne verrà fuori. Mi colpisce, comunque, che la legge
elettorale sia decisa dagli accordi d’interesse di tre persone
(Berlusconi, Renzi, Alfano), invece che dalle ragioni della democrazia,
cioè dalle ragioni di tutti i cittadini elettori. Mi colpisce tanta
arroganza, mentre con un Parlamento delegittimato come l’attuale, si
tratterebbe di fare la legge più neutrale possibile. Mi colpisce che si
pensi a una legge che, contro un’indicazione precisa della Corte
costituzionale, creerebbe una profonda disomogeneità politica tra le due
Camere. Mi colpisce che si dica con tanta leggerezza che non importa,
perché il Senato sarà abolito. Mi colpisce che nel frattempo, comunque,
si sospenderà il diritto alle elezioni, perché la contraddizione tra le
due Camere impedirà di scioglierle. Mi colpisce che non ci siano
reazioni adeguate a questa passeggiata sulle istituzioni.
E l’idea di “diminuire” il Senato?
Vedremo
la proposta. Fin da ora, vorrei dire che piuttosto che un pasticcio –
interessi frammentati di politici locali con una spruzzata di cultura –,
piuttosto che una cosa indefinita, senza una funzione, una propria
ragion d’essere stabile e continuativa, meglio l’abolizione radicale.
Meglio il nulla, piuttosto che l’umiliazione. Esistono già commissioni
paritetiche, per la bisogna. Si cerchi di non trattare le istituzioni
come merce vile che si vende al qualunquismo antiparlamentare al prezzo
di qualche piccolo risparmio sul ‘costo della politica’. I Senati, o
‘seconde Camere’, o ‘Camere alte’ hanno profonde ragioni d’esistenza. Le
loro funzioni, quali che esse specificamente siano, si giustificano con
l’esigenza di introdurre nei tempi brevi della democrazia
rappresentativa la considerazione d’interessi di più lunga durata, che
riguardano – come si dice – le generazioni future. Sono assemblee
moderatrici rispetto all’incalzare del consenso elettorale che deve
essere incassato a intervalli brevi dall’altra assemblea. La prima
Camera è necessariamente miope; la seconda Camera deve essere presbite.
Deve far valere le ragioni della durata su quelle dell’immediatezza. La
sua composizione e le sue funzioni dovrebbero tener conto di questa
vocazione, essenziale affinché la democrazia rappresentativa non
dilapidi in tempo breve le risorse di tutti, nell’interesse elettorale
di qualcuno. Mi pare che i discorsi dei nostri riformatori restino molto
in superficie, rispetto alla profondità della questione.
Non è un bel momento, anche per le istituzioni di garanzia.
Le
istituzioni di garanzia sono la magistratura, dunque anche la corte
costituzionale, e il presidente della Repubblica. Poi c’è la libera
stampa, che dovrebbe vigilare nell’esercizio della sua funzione al
servizio della pubblica opinione. Siccome nelle oligarchie, come si è
detto, le segrete cose – trattative, patti non dichiarati e
dichiarabili, corruzione delle funzioni pubbliche – sono fisiologiche,
le istituzioni di garanzia e libera stampa dovrebbero fare da
contraltare quando occorre. In ogni caso, non mescolarsi e non
omologarsi.
Il sistema italiano è perfettamente riassunto
dal rapporto tra Rai e politica: è una commissione parlamentare che
vigila sul servizio pubblico – e sull’informazione che produce – e non
il contrario. Ben più che un paradosso.
È uno dei grandi
rovesciamenti che ci tocca osservare in questi tempi. Non l’unico.
Pensiamo ad esempio al sistema elettorale. Dovrebbe garantire che la
base della vita politica stia presso i cittadini elettori. La logica
della legge che abbiamo avuto fino a ora e, con ogni probabilità, di
quella che avremo se la riforma andrà in porto, è invece quella della
nomina dall’alto (delle segreterie dei partiti), con ratifica degli
elettori. Uno dei principi del Fascismo era: ‘il potere procede
dall’alto ed è acconsentito dal basso’.
Torniamo a Weber: cosa può indurre uno studioso a rinunciare a un bene sommo quale l’autonomia?
Le
risposte più banali sono la seduzione del potere, la carriera. C’è
però, credo, la tentazione dell’apprendista stregone o della ‘mosca
cocchiera’: pensare di guidare la politica. Quando Carl Schmitt è stato
processato a Norimberga, ha osato dire: ‘Non sono io a essere stato
nazista, era il nazismo a essere schmittiano’.
Il pericolo non è essere costretti a sostenere certe tesi a tutti i costi?
Se
si riferisce all’atteggiamento di molti costituzionalisti nei confronti
dell’ultima fase della presidenza di Giorgio Napolitano, direi che è
prevalsa l’idea che il presidente della Repubblica fosse l’ultimo
baluardo, al di là del quale il caos, il disastro, il fallimento. Ciò ha
portato a giustificare l’assunzione di compiti e il compimento di atti
che nella storia costituzionale repubblicana, non si erano mai
incontrati. Al punto che si parla ormai come cosa ovvia, non
problematica, d’una repubblica presidenziale che ha preso il posto del
sistema parlamentare. Tutto ciò si è manifestato in un attivismo finora
sconosciuto. Ma è stato un attivismo orientato a quella che si dice
essere la stabilità e la continuità, e che si traduce in conservazione.
Mi pare che si possa dire che è prevalsa la paura del nuovo, il
pessimismo politico. Solo apparentemente per paradosso, l’attivismo
costituzionale è coinciso con il conservatorismo politico. La
Costituzione, prevedendo un ruolo neutrale e super partes, del
presidente della Repubblica, dà, mi pare, un’indicazione opposta:
l’imparzialità costituzionale per consentire le innovazioni politiche,
il rinnovamento della vita politica. Ottimismo politico.