Riflettendo sul tema oggetto del presente convegno non si può prescindere dalla nostra Costituzione che all'art. 1 sancisce che l'Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro; ma già prima, la Conferenza generale dell’Organizzazione internazionale del Lavoro, riunita a Filadelphia nel maggio 1944 al primo comma della Dichiarazione (nota come dichiarazione di Filadelphia) pone come punto cardine l'affermazione di principio "il lavoro non è una merce". Ora, nel trentennio successivo alla Dichiarazione di Filadelfia tutta la legislazione del lavoro e la giurisprudenza delle corti ordinarie, della Corte Costituzionale e la dottrina elaborata dai giuslavoristi si sono sviluppate nei maggiori paesi europei perseguendo l'affermazione del principio posto a base della Dichiarazione dall'OIL (penso all'Italia, con lo Statuto dei Lavoratori del 1970 che prima di essere una legge di diritti individuali e sindacali è stato una conquista di democrazia e di libertà). Di contro già a partire dalla fine degli anni settanta con lo svilupparsi del liberismo che in Europa ha avuto uno dei massimi fautori nei governi conservatori della Tatcher si è avuta una marcata inversione di tendenza. E' tornato a prevalere il principio per cui dopo tutto il lavoro non è altro che una merce. Operai e impiegati si trovano sotto costante ricatto occupazionale, ridotti a cittadini senza ruolo e senza personalità; il precariato che non offre ai giovani alcuna speranza di un futuro, la dignità viene assegnata all'individuo sulla base del censo e della professione. Insomma un ritorno al passato.
Il nuovo corso della legislazione del lavoro sotto l'impulso della politica ha accolto tutte le istanze dell'economia e questo nuovo corso ha portato ad una deregolazione del mercato del lavoro e ad un vero e proprio smantellamento della legislazione protettrice dell'occupazione; deregolare significa portare indietro l'orologio della storia del lavoro ai tempi in cui il lavoro veniva venduto dall'individuo all'impresa come una qualsiasi merce. Ebbene non può sfuggire che il lavoro come merce ha come ricaduta la separabilità del lavoro dalla persona né possiamo fingere di ignorare che la flessibilità dell'occupazione e della precarietà ad essa collegata non va a connotare la natura del singolo contratto atipico ma piuttosto la condizione sociale, umana psicologica di esso.
Anche la sicurezza sui luoghi di lavoro è compromessa dai lavori flessibili: di qui l'incremento esponenziale delle morti sul lavoro.
Nel ripercorrere sinteticamente le tappe d questo processo di ri-mercificazione del lavoro merita di essere richiamato il protocollo del 23 luglio 1993 che può essere considerato la prima tappa della ri-mercificazione del lavoro avendo indicato la strada alle successive leggi e decreti per accrescere la flessibilità/precarietà dei rapporti di lavoro.La seconda tappa è stata la legge 24 giugno 1997 n. 196 detta anche << pacchetto Treu >>, che ha attuato il protocollo del 1993 e che sebbene si intitolasse << Norme in materia di promozione dell'occupazione >> nascondeva ben altri propositi.
La maggiore novità è stata appunto la istituzione del lavoro interinale ovvero della fornitura del lavoro temporaneo, come per qualunque merce, energia elettrica, gas acqua e lavoro.
Un salto netto verso la moltiplicazione dei lavori flessibili si attua con il decreto legislativo 6 settembre 2001 n. 368 che ha liberalizzato i contratti di lavoro a termine.
La legge 30 del 2003 ha fatto compiere ulteriori passi in direzione di una compiuta ri-mercificazione del lavoro introducendo ben 44 nuove tipologie di contratti precari dal lavoro a progetto, alla somministrazione a tempo determinato ed indeterminato, intermittente o a chiamata, contratto di inserimento, lavoro condiviso, e così via.
E sarà passata sicuramente sotto silenzio la notizia che nel 2007 l'ONU attraverso l'ILO (International labour organization) - non un gruppo di pericolosi bolscevichi- che ha una funzione normativa e di controllo ha condannato la legge 30 che avrebbe creato una situazione di precarietà preoccupante.
Purtroppo, quasi uniformato a questo declino dei diritti sociali si registra un calo di tensione nelle decisioni della magistratura del lavoro che pure è destinata a svolgere un ruolo primario e ad avere un'incidenza notevole nella realizzazione dei diritti fondamentali della persona ma che troppo spesso tende a privilegiare la soluzione deflattiva piuttosto che la realizzazione di una giustizia sociale. Ciò è tanto più grave perché oggi per arginare questo fenomeno di devastazione dei diritti, di massacro dei diritti sociali, c’è proprio un fortissimo bisogno di giustizia del lavoro.
Perciò il compito degli operatori del diritto nei prossimi anni dovrà essere quello di puntare, attraverso la costituzione di gruppi di potere, alla de-mercificazione del lavoro.
Come? Con il fare inchieste….informazione ….. e soprattutto vigilanza democratica.
Molto si chiederà anche alla Corte Costituzionale auspicando che i profili di incostituzionalità che verranno enucleati dalla miriade di leggi che hanno completamente smantellato i diritti sociali, possano contribuire a riaffermare il principio cardine della Dichiarazione di Filadelfia che il lavoro non è una merce, ma è un elemento integrale ed integrante del soggetto che lo presta, dell'identità della persona, dell'immagine di sé, del senso di autostima, della posizione nella comunità della sua vita familiare presente e futura.
E nell'avviarmi a concludere vorrei ricordare Massimo D'Antona il quale già nel 1993 commentando le misure sulla flessibilità del lavoro previste dal protocollo del luglio 1993 affermava: << E' un programma che ha il limite evidente di ripercorrere sentieri battuti. L'idea che quote aggiuntive di flessibilità nelle tipologie dei posti di lavoro possano produrre occupazione è palesemente obsoleta. Il mercato del lavoro è ormai in Italia flessibilizzato in misura più che adeguata alle esigenze effettive delle imprese e non vi sono margini ulteriori per creare convenienze alle assunzioni>>.
Gli avessero mai dato retta, il governo di allora e quelli successivi, molti giovani e meno giovani conoscerebbero oggi migliori condizioni di lavoro e di vita.
E' tornato a prevalere il principio per cui dopo tutto il lavoro non è altro che una merce. Operai e impiegati si trovano sotto costante ricatto occupazionale, ridotti a cittadini senza ruolo e senza personalità; il precariato che non offre ai giovani alcuna speranza di un futuro, la dignità viene assegnata all'individuo sulla base del censo e della professione. Insomma un ritorno al passato