La rivoluzione tradita

di Francesco Baicchi - 28/10/2008

L’incessante attacco cui sono quotidianamente sottoposte le regole della democrazia nel nostro Paese sta forse finalmente facendo emergere la gravità degli errori più o meno recenti che hanno portato a un progressivo allontanamento dal dettato della nostra Carta Costituzionale, e dovrebbe contemporaneamente spingere a una sua rilettura che ne restituisca intero il valore rivoluzionario.
Uso con perplessità questo termine ormai desueto, ma non ne trovo uno migliore per sintetizzare gli elementi di novità che vennero introdotti nella nostra società appena uscita dal fascismo e dal dramma della guerra.

Con la Costituzione del ‘48 e la proclamazione della Repubblica anche in Italia si affermò che il potere politico non poteva derivare da fonte divina, né trasmettersi per ereditarietà, ma viene assegnato dalla volontà dei cittadini, che sono tutti uguali senza distinzioni; si riconobbe la parità di genere, facendo votare le donne sino a quel momento considerate politicamente inesistenti; si assegnarono allo Stato nuovi compiti, che trovano nell’art. 3 la loro sintesi più alta con l’affermazione che l’uguaglianza dei cittadini non può essere solo riconosciuta sul piano formale, ma deve essere costruita con atti concreti; si ‘ripudiò’ la guerra, accettando, dopo gli anni del delirio, le ‘limitazioni di sovranità’ necessarie alla costruzione di organizzazioni sovranazionali che assicurassero ‘la pace e la giustizia fra le Nazioni’.

Come definire tutto questo rispetto ai fasti di un impero (sic!) che ambiva a conquistare con le armi territori vicini e lontani, alle leggi razziali che condannavano ai forni crematori nostri concittadini solo per il loro credo religioso, al licenziamento di massa di quanti non aderivano al fascismo e alla tolleranza per i misfatti delle squadracce in camicia nera (composte peraltro da singoli imbelli e pavidi, come dimostrò la loro fulminea conversione appena capirono che la guerra era persa)?

Credo dunque che ‘rivoluzione’ non sia un termine eccessivo e, come sempre accade nelle rivoluzioni, gli obiettivi che il Paese si diede non potevano che essere ai limiti dell’utopia. Ma si trattò di una utopia condivisa e mediata fra tutte le correnti di pensiero che si erano opposte alla dittatura, e quindi, se non fosse una contraddizione in termini, ragionevole.  

Oggi come non mai, dopo sessanta anni, possiamo apprezzare la lungimiranza dei Costituenti e dare il giusto (grande) valore allo sforzo di composizione di ideologie che potevano apparire inconciliabili e che solo la loro statura morale e la ricerca del bene comune rese coerenti in un quadro di libertà e di solidarietà che non sposava né il liberismo assoluto, né l’invadenza statalista, entrambe poi bocciati dalla storia.
Ma non possiamo al tempo stesso non prendere atto che gran parte degli obiettivi scritti nella Carta non sono stati che in minima parte realizzati, in molti casi nemmeno perseguiti e che stanno con forza riproponendosi le ideologie e i comportamenti di cui si voleva proprio scongiurare il ritorno.

L’impunità per troppo tempo garantita a chi, fin dall’inizio della sua ‘resistibile ascesa’ , ha esplicitamente dimostrato l’obiettivo della creazione di un regime autoritario, le complicità che hanno consentito il consolidamento del suo monopolio dell’informazione, l’insofferenza diffusa (non solo a destra) verso una Magistratura colpevole solo di smascherare i corrotti e, infine, l’adesione a sistemi elettorali che limitano sempre di più l’espressione della volontà popolare garantita dall’art. 1 della Costituzione sono solo gli aspetti più recenti di questo progressivo abbandono del quadro costituzionale.

Proprio l’indifferenza (quando non l’applauso) con cui sono spesso accolti i tentativi di demolire, screditandoli, i meccanismi della rappresentanza democratica impongono una riflessione attenta e anche autocritica.
Nella nostra opinione pubblica sembrano oggi diffondersi il rifiuto della responsabilità individuale, il disimpegno, l’insofferenza per il dialogo e per il confronto con le idee altrui, l’attesa di un ‘duce’ cui delegare tutti i poteri, la ricerca del ‘diverso’ in cui identificare il ‘male’ e di una identità corporativa, campanilistica o addirittura razziale in cui annullarsi, soprattutto la sfiducia verso le istituzioni democratiche; è una condizione non lontana da quella che aprì la strada al fascismo, che fu, non dimentichiamolo, fenomeno di massa.  


Ma se è inaccettabile qualunque proposta di esautorare il Parlamento della sua funzione con il costante ricorso alla decretazione, le sempre più frequenti richieste di ‘fiducia’ cui non si può rispondere che con il ricorso ai referendum abrogativi o l’imposizione di regolamenti che di fatto lo trasformano in un organo di mera registrazione della volontà dell’esecutivo, occorre però anche prendere atto che il rapporto fra gli elettori e i loro rappresentanti, a causa dell’esasperato frazionismo, della politica paralizzante dei veti incrociati e del dilagare dei fenomeni clientelari si è negli anni talmente deteriorato da ridurre ai minimi termini la credibilità del sistema rappresentativo.

E’ a questa emergenza che occorre ora dare una risposta, prendendo nettamente le distanze dai fenomeni degenerativi che hanno portato alla formazione di una oligarchia di professionisti della politica che appare autoreferenziale, inamovibile e indifferente al giudizio degli elettori.
Da questo punto di vista l’aperta resistenza (in forme diverse) dei gruppi dirigenti delle forze a sinistra del PD alla creazione di una formazione politica nuova, in grado di recuperare l’elettorato progressista e deluso che rappresenta larga parte del ‘partito degli astenuti’, è la dimostrazione più evidente di come anche a sinistra si sia persa la capacità di dare risposte ai bisogni e agli orientamenti dei cittadini, o forse della volontà di far prevalere su di essi interessi personali e clientelari.

Proprio in questo consiste il principale tradimento della ‘rivoluzione’ costituzionale: la trasformazione dei partiti da strumenti di partecipazione popolare a centri di potere autoreferenziali, che, indipendentemente dal giudizio sulle loro proposte, hanno perseguito più la conquista di una delega acritica che di un consenso ragionato. Trasformazione che negli ultimi 15 anni si è ulteriormente accentuata con l’approvazione di leggi elettorali e statuti regionali sostanzialmente presidenzialisti e in grado di falsare la volontà popolare, oltre che di limitarne l’espressione.
Progressivamente si è puntato a neutralizzare il rapporto eletti-elettori, sottraendo a questi ultimi il potere di valutare l’operato dei primi e trasferendo alle segreterie dei partiti le decisioni in merito alla loro rielezione, fino alle attuali liste bloccate. Se l’attuale Parlamento è di fatto una mera emanazione dei vertici partitici e non è quindi rappresentativo della volontà popolare, anche la ingiustificata teoria dell’automatico ‘diritto’ al secondo mandato per i sindaci e i presidenti di provincia ha lo stesso significato. Per non parlare della ‘immortalità’ dei dirigenti politici, che passano da un incarico pubblico all’altro impedendo di fatto qualunque rinnovamento.
Questa pratica nega di fatto l’impianto fondamentale del nostro sistema costituzionale, che vede nelle assemblee (Parlamento e Consigli) la sede del dibattito e del confronto delle idee di singoli eletti (pur accomunati da ideali e strategie nei diversi partiti), portatori di conoscenze ed esperienze, che si dovrebbero presentare periodicamente al giudizio dell'elettorato e invece dipendono totalmente dai vertici del loro partito.

Si è dunque progressivamente tornati al mero rapporto di forza fra schieramenti indistinti; si punta ora all'abolizione del potere di controllo della minoranza, alla cancellazione degli istituti di garanzia, alla 'dittatura della maggioranza', aggravata dal fatto che quella parlamentare non rappresenta la maggioranza dei cittadini e che il meccanismo elettorale è comunque invalidato dal monopolio dell'informazione. 

A questa deriva, che si avvicina a una restaurazione dei regimi precedenti la rivoluzione costituzionale, non è possibile resistere che con una opposizione intransigente e unitaria, col superamento della politica intesa come professione privilegiata, con un profondo rinnovamento soprattutto sul piano etico, il ritorno alla responsabilità individuale e alle procedure democratiche anche all'interno dei partiti. Prescindendo dagli interessi delle singole sigle per recuperare rispetto e credibilità dei meccanismi democratici e confermi, come hanno fatto gli elettori nel referendum del 2006, l'adesione agli ideali repubblicani e antifascisti.

In questo quadro una forza di sinistra, democratica, non dogmatica e che si interroghi sui limiti dei tradizionali strumenti di analisi di fronte alle sfide di questo millennio, è indispensabile, ma non può nascere da compromessi né essere condizionata da nostalgie per gli errori che hanno portato alla drammatica situazione attuale.


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