Presi in
giro e arrabbiati: così si sentono i tanti italiani e siciliani che
in questi anni si sono impegnati a fondo nella lotta alla mafia e
nella diffusione della cultura della legalità. Associazioni,
semplici cittadini, magistrati, giornalisti, forze dell’ordine,
tutti angosciati e scioccati dagli sviluppi dell’inchiesta sulla
presunta trattativa tra Stato e mafia, durante il periodo delle
stragi del 1992. Una trattativa per fermare il tritolo, una serie di
contatti finalizzati a trovare una tregua, contraccambiando la pax
mafiosa con tutta una serie di concessioni a vantaggio dei boss.
Questo risulta dalle dichiarazioni di Massimo Ciancimino, figlio
dell’ex sindaco di Palermo, Vito, affiliato al clan dei corleonesi
e protagonista del sacco edilizio di Palermo negli anni ’70 e ’80.
Una trattativa accelerata dopo la strage di Capaci, una trattativa a
cui il giudice Borsellino, una volta venutone a conoscenza, si
sarebbe opposto. Un’opposizione che sarebbe stata all’origine
della sua rapida eliminazione. Le indagini sono in corso e, tra
conferme e smentite, spiccano le dichiarazioni del Procuratore
nazionale antimafia, Piero Grasso, il quale ha affermato che “il
momento era terribile, bisognava cercare di fermare questa deriva
stragista che era iniziata con la strage di Falcone: questi contatti
dovevano servire a questo e ad avere degli interlocutori credibili”.
E ancora: “La trattativa – dice Grasso - ha salvato la vita a
molti ministri. Anche via D’Amelio potrebbe essere stata fatta per
riscaldare la trattativa. In principio pensavano di attaccare il
potere politico e avevano in cantiere gli assassinii di Calogero
Mannino, di Martelli, Andreotti, Vizzini e forse mi sfugge qualche
altro nome. Cambiano obiettivo probabilmente perché capiscono che
non possono colpire chi dovrebbe esaudire le loro richieste. In
questo senso si può dire che la trattativa abbia salvato la vita a
molti politici”. Dichiarazioni gravissime, che lasciano attoniti
per il candore e la serenità con cui Grasso le ha rilasciate.
Dopo
17 anni dalle stragi di Capaci e via D’Amelio in molti hanno
recuperato la memoria ed hanno deciso di parlare. Ci si chiede perché
solo adesso? Perché non prima? Lo Stato italiano, dunque, ha scelto
di piegarsi, di sedersi al tavolo con le belve mafiose, mentre il
sangue dei magistrati e dei poliziotti era ancora fresco, mentre
l’odore della morte si respirava ancora e dolore e rabbia
attraversavano le vene gonfie della società civile. Le istituzioni
italiane fingevano di essere forti, mentre lasciavano morire l’ultimo
grande magistrato italiano, l’unico rimasto in grado di scoprire e
smascherare i rapporti tra clan e potere politico.
Sembrerebbe dunque
una strategia di autodifesa o, ad essere meno malpensanti, una
semplice e grave dimostrazione di vigliaccheria. Gli uomini dello
Stato lottavano e morivano, mentre lo stesso Stato trattava con i
loro assassini. Se ciò dovesse trovare una conferma definitiva
saremmo davanti alla più grande vergogna italiana. Sempre che gli
italiani se ne accorgano e siano ancora in grado di percepirla come
tale. Se l’esistenza della trattativa verrà dimostrata, come
sembra, allora vorrà dire che nel 1992 lo Stato non solo ha
raggirato e condannato a morte i magistrati e le forze dell’ordine,
ma ha anche preso in giro, oltraggiato, umiliato il risveglio delle
coscienze che si verificò in quei giorni, i lenzuoli bianchi, le
fiaccolate, le manifestazioni, le lacrime e gli ideali di giustizia
di una cittadinanza che era stata privata dei suoi uomini migliori.
Intere generazioni cresciute nel ricordo di quei giorni,
nell’indignazione per la violenza mafiosa, nella soddisfazione di
una risposta decisa delle istituzioni, con le operazioni e gli
arresti eccellenti, oggi si sentono tradite e smarriscono sempre di
più la loro fiducia in un Paese che sembra condannato a non cambiare
mai, a vivacchiare dietro compromessi e complotti, in cui a
rimetterci è sempre chi lavora con onestà, con spirito di
sacrificio, alla ricerca della verità. Una fiducia che scricchiola
sempre di più, soprattutto quando si assiste a certi gesti, quando
si ascoltano certe parole, dette con una leggerezza disarmante, con
un tono troppo netto e freddo per non apparire sospetto.
Un esempio
recente è costituito dalla vergognosa “sparata” del capo della
Mobile di Napoli, Vittorio Pisani, il quale ha affermato che, dopo
aver cercato riscontri a quanto dichiarato dallo scrittore Roberto
Saviano a proposito delle minacce ricevute, egli aveva espresso
“parere negativo sull’assegnazione della scorta”. Il capo della
Mobile di Napoli, dopo aver etichettato il libro “Gomorra” come
un’opera che ha avuto “un peso mediatico eccessivo”, rincara la
dose e si spinge troppo oltre: “Resto perplesso – afferma Pisani
riferendosi a Saviano - quando vedo scortare persone che hanno fatto
meno di tantissimi poliziotti, magistrati e giornalisti che
combattono la camorra da anni”.
Parole che sanno di
delegittimazione, riproponendo un tema identico a quello usato
proprio dai camorristi per screditare il giovane scrittore
napoletano. Frasi gravi, pesanti come macigni, che hanno determinato
la risposta immediata del capo della Polizia, Manganelli, il quale ha
chiesto che la scorta a Saviano venga rafforzata, e che hanno
suscitato rabbia e indignazione nei magistrati impegnati nella lotta
alla criminalità organizzata e nella gente comune, nelle migliaia di
persone che incitano, sostengono Roberto in questa battaglia che,
prima di tutto, è culturale, fondata sulla consapevolezza che la
forza delle parole possa cambiare il mondo.
Ovviamente la forza delle
parole di verità, come quelle contenute in “Gomorra” ed in tanti
articoli scritti da Saviano; di certo non quelle imbarazzanti e
preoccupanti di Pisani, il quale da uomo dello Stato dovrebbe far
capire con chiarezza da che parte sta, perché certe esternazioni
diventano sospette se coincidono con un modo di pensare che è
proprio di chi lo Stato dovrebbe combattere. E questa ambiguità è
qualcosa che, purtroppo, attraversa da sempre la società italiana,
sconvolta oggi da una trattativa che è lo specchio della debolezza
delle istituzioni, dell’isolamento a cui i vertici della nazione
hanno costretto i propri figli più capaci, siano essi magistrati,
poliziotti, giornalisti o scrittori.
Un tradimento continuo che, al di là delle indagini e degli accertamenti, sembra connaturato al nostro sistema politico e destinato a perpetuarsi nel tempo.