«Io amo i predatori. Li amo perché vivono d’espedienti». Siamo nell’agosto
1994. l’uomo che così si esprime, Albert J. Dunlap, è un grande esperto di
ristrutturazioni industriali. Nel locale dove lavora qualche oggetto in bronzo
intriga: due squali che descrivono un cerchio, posati sulla scrivania; un leone
nell’atto di balzare, sul tavolo per le riunioni; un’aquila che attacca la sua
preda nell’anticamera. Dunlap ha 52 anni. Qualche mese prima si è messo
comodamente in pensione e si annoia un poco sui campi da golf e da tennis
quando Scott Paper, l’impresa americana che nel 1907 ha inventato la carta igienica in rotoli, lo chiama.
Nelle settimane che seguono la sua assunzione egli annuncia la soppressione
imminente di quasi undicimila posti di lavoro, ovvero di un terzo degli
effettivi. Un «dimagrimento» a tutti i livelli gerarchici, ma anche una
«spolveratura»: «Occorre, egli ritiene, sbarazzarsi delle persone che
rappresentano l’antica cultura [d’impresa], altrimenti esse vi avversano (1)».
Dunlap ha fama e reputazione di non essere dotato del senso della diplomazia.
Taglia nel vivo. Rievocandolo, il miliardario ultra-conservatore
franco-britannico James Goldsmith confida: «Non ho mai incontrato qualcuno che
sappia meglio di lui risistemare un’impresa e prendere le rudi decisioni che
s’impongono. È un chirurgo, nel senso che deve fare scorrere il sangue per
risolvere il problema del paziente (2)».
Ieri glorificati, i predatori cominciano tuttavia a essere denunciati in quanto
tali negli Stati Uniti, il Paese che, a partire dall’inizio degli anni ’80, ha
dato l’esempio di uno smantellamento sistematico del contratto sociale.
La «rivoluzione» reganiana e le sue conseguenze? Nell’essenziale «una truffa
orchestrata da uno Stato predatore», accusa James K. Galbraith, economista
all’Università del Texas (3). L’eccellenza manageriale? Di fatto uno
sfruttamento generalizzato, spietato e dispotico della mano d’opera, una
«grande estorsione», dimostra nella sua opera The Big Squeeze il
corrispondente del New York Times Steven Greenhouse. La promessa di una
prosperità per tutti, secondo una logica «vincente-vincente», purché ognuno si
«responsabilizzi» e dia il meglio di sé? Piuttosto una sovraesposizione degli
individui e delle famiglie ai rischi sociali – rischi al di fuori del loro
controllo e dei loro mezzi finanziari, la cui incidenza cresce e che non sono
più o quasi più coperti. È l’argomento centrale sviluppato da Peter Gosselin,
corrispondente del Los Angeles Times, in High Wire.
Questa violenza negli Stati Uniti è oggi estrema. Contrariamente a un’idea
assai diffusa in Europa, non è sempre stato così. Il connubio fra
l’arretramento della protezione sociale e la generalizzazione del management
aggressivo ha raggiunto progressivamente tutti gli strati sociali, eccetto la piccola
frangia dei più ricchi. Ancora affascinata da un «modello» americano molto
screditato dall’attuale crisi finanziaria, l’Europa è andata nella medesima
direzione, come lo testimoniano altre opere qui presentate. Nel complesso esse
dimostrano che sono sempre più numerosi i cittadini dei Paesi ricchi che
vengono abbandonati a loro stessi, alla loro responsabilità personale o alle
loro difficoltà psicologiche quando sono messi di fronte all’ingiustizia del
sistema.
Il sistema americano di protezione sociale si fonda su tre complessi di
prestazioni. Il primo è fornito dai dispositivi pubblici, di entità
minimalista, di ricorso estremo e d’accesso limitato. Il secondo insieme, di
gran lunga il più importante, è costituito dalle prestazioni che le imprese forniscono
ai loro dipendenti, innanzitutto in materia di malattie, di handicap e di
pensioni. Il terzo, a carico degli individui, dipende dalla loro capacità di
auto-finanziare la propria polizza d’assicurazione privata.
Questo sistema differisce molto sensibilmente dai «modelli» sociali europei, ma
i suoi sistemi di base non ne sono così distanti come appare.
Durante i quattro decenni che sono seguiti alla creazione della Social
Security da parte di Franklin Roosevelt, nel 1935, la sua ragione d’essere
derivava dalla preoccupazione di preservare gli equilibri sociali essenziali,
di fare sì che un insieme di obblighi reciproci controbilanciasse i valori del
mercato e il principio di libertà individuale. Si riconosceva esplicitamente, e
lo si riaffermava periodicamente, che gli individui non sono in grado di
assumere da soli i rischi dell’esistenza e che la solidarietà sociale «concorre
alla stabilità, alla salute, alla giustizia e all’umanità del nostro sistema di
impresa privata (4)».
Nonostante le imperfezioni del sistema questa filosofia era alla base del
contratto sociale. Essa è volata in pezzi. Spazzata via dalla dottrina del
libero mercato, è stata rimpiazzata da una retorica magnificante le virtù dell’
empowerment (5) e della «responsabilità» individuale. La riattivazione
di queste nozioni ambivalenti (che propalavano il «sogno americano» del self-made-man,
ancora molto ricco di significato) e le contemporanee campagne di denigrazione
del big government hanno largamente contribuito a distogliere l’attenzione
dell’opinione pubblica e a rendere invisibile l’ampiezza del lavoro di
smantellamento.
Come nota Gosselin nella sua introduzione, i dibattiti del periodo
contemporaneo si sono focalizzati sul ramo più debole della protezione, i
dispositivi pubblici. Questi riguardano l’assistenza sociale, la
disoccupazione, la malattia, il pensionamento e altre prestazioni, tutte
concesse a condizioni (molto restrittive) di disponibilità delle risorse.
Perfino la frazione povera, addirittura molto povera, della popolazione non vi
ha obbligatoriamente accesso (specialmente in caso di malattia).
Attaccati in modo ripetitivo, ivi compreso William “Bill” Clinton (1993-2001),
la loro revisione al ribasso giustificava ampiamente forti proteste, tanto essa
accresceva l’ingiustizia, già grande, della società nei confronti dei più
bisognosi. Tuttavia, durante questo periodo, nel settore privato il nocciolo
del sistema (datori di lavoro e compagnie d’assicurazioni) veniva anch’esso
profondamente rimaneggiato. E questo è passato per la maggior parte
inosservato: non vi è stata, se non in modo circoscritto, reazione aperta e
collettiva contro il degrado, perfino la soppressione, di queste prestazioni.
Informare gli assicurati con un linguaggio praticamente incomprensibile e deliberatamente
ambiguo
Queste [le assicurazioni] coprono un vasto ventaglio di rischi sociali vitali e
rappresentano l’equivalente di un salario differito – termine questo che non è
più comunemente usato, perché le elite europee gli preferiscono la nozione di
«carichi sociali». Nel passato esse hanno garantito una protezione sostanziale
per i salariati, soprattutto per quelli della grande industria, anche se erano
percepite come vantaggi marginali (da cui l’espressione fringe benefits):
finché durava la stabilità economica era possibile considerarle con una certa
noncuranza.
La loro messa in discussione è stata semplificata dal fatto che non si
trattava, a dire il vero, di diritti sociali garantiti dalla legge. Le imprese
erano incitate da riduzioni d’imposta a offrire una copertura sociale ai loro
dipendenti e a lungo non hanno avuto altro, all’occorrenza, che un obbligo
morale a tenere fede ai loro impegni. La copertura sociale è diventata legale
una decina d’anni dopo lo shock causato nel 1963 dall’incapacità del
costruttore d’automobili Studebaker di onorare, al di là del 15% del loro
valore, gli impegni presi di garantire le pensioni ai suoi settemila dipendenti
licenziati dopo la chiusura della sua fabbrica di South Bend (Indiana).
Una legge del 1974 ha quindi costretto le imprese a costituire un fondo di riserva
per evitare la ripetizione di questo genere di fatti. Ma nel 1985 la prima di
una serie di sentenze della Corte suprema interpretava questa legge in senso
favorevole alle imprese e alle compagnie di assicurazioni: contrariamente alle
intenzioni del legislatore non sarebbero stati più protetti gli individui,
bensì la salute dei Fondi.
La legge si è così trasformata in uno strumento per ammorbidire, se non per
cancellare totalmente, gli obblighi dei datori di lavoro e delle compagnie di
assicurazioni verso gli assicurati. La crociata contro i «carichi sociali» ne è
stata avvantaggiata in uguale misura. Altri dispositivi sono stati
opportunisticamente immaginati per ritorcere contro gli individui la
responsabilità dei rischi sociali. Le compagnie di assicurazione hanno così
sviluppato tecniche molto sofisticate per non dover coprire, in parte o del
tutto, i rischi che esse d’altra parte pretendono di prendersi a carico – e per
informarne gli assicurati in un linguaggio tecnico praticamente incomprensibile
e deliberatamente ambiguo.
In questo modo nel 2005, nonostante l’uragano Katrina e qualche altra grande
tempesta, i profitti dell’industria delle assicurazioni avevano raggiunto un
record di 45 miliardi di dollari. Altro esempio, i piani 401 (k), introdotti a
partire al 1976: sistemi di risparmio-pensioni per le imprese meno onerosi dei
vecchi piani di pensionamento offerti ai dipendenti. Le imprese sempre in
maggior numero hanno sostituito i primi ai secondi. I 401 (k) sono così
diventati uno «strumento strategico» per aumentare la competitività (6); e per
trasferire i rischi d’insolvibilità sui beneficiari, il risparmio-pensione
veniva investito sul mercato finanziario, talvolta perfino in azioni dell’azienda
datrice di lavoro (era il caso della Enron).
Infine, in caso di perdita del lavoro, prestazioni sociali come
l’assicurazione-malattia, quando esiste, sono interrotte o perdute, eccettuato
il caso in cui la persona disoccupata o «in transito» verso un nuovo impiego
generalmente meno remunerato, possiede i mezzi per finanziare da sé i premi
assicurativi (aumentati delle spese amministrative) (7).
Analizzando la crisi del 1929 due economisti (citati da Gosselin), Richard
Burkhauser e Greg Duncan, hanno dimostrato che il crollo della Borsa e la
disoccupazione non spiegano da soli le difficoltà incontrate allora dagli
Americani. A quell’epoca pochi erano coinvolti nel mercato finanziario e il 75%
dei salariati avevano conservato il loro lavoro. Perché l’esistenza di una
famiglia vacillasse bastava una manciata di avvenimenti ordinari: una malattia,
un incidente, un divorzio, la nascita inaspettata di un figlio, una diminuzione
del salario o delle ore di lavoro.
Proseguendo il loro ragionamento e studiando, questa volta, il periodo,
propizio, degli anni ’70 e ’80, i medesimi ricercatori hanno osservato un
fenomeno identico. Come Gosselin dimostra attraverso racconti di vita e molte
altre fonti d’informazione, il «caos economico» non ha fatto altro che
accentuare questa tendenza. Favorite dalle chiusure di imprese, in uno stesso
anno quasi altrettanto numerose delle aperture, o anche dalle permanenti
ristrutturazioni e riorganizzazioni, si sono moltiplicate le situazioni nelle
quali gli individui, messi di fronte a brutali diminuzioni del reddito,
scoprono di avanzare su una corda tesa ma senza rete sotto, contrariamente a
ciò che si sarebbero potuti attendere se fossero stati assicurati.
Il management aggressivo prospera proprio su questa base d’insicurezza sociale.
«Se vuoi essere amato, prenditi un cane. Ma negli affari fatti rispettare!»,
spiega Dunlap. Per ottenere salariati che lavorino duro non vi sono che due
metodi: ricompensarli o punirli, afferma il professor Jerry Newman, interrogato
da Greenhouse.
Se si vuole controllare i costi con budget costantemente ristretti occorre
quindi punirli. Esercitare pressione, spietatamente, su di loro, brutalizzarli,
intimidirli, umiliarli, tormentarli, spingere sempre più lontano il limite
delle proprie esigenze e non esitare a infrangere la legge. Di già debole negli
Stati Uniti, la regolamentazione viene così agevolmente aggirata per estorcere
tutto quello che può esserlo dal «lavoratore impaurito», sottoposto alla forte
concorrenza della mano d’opera illegale (8) e perfino, in certi casi, del
lavoro minorile. I «lavori estremi» da sessanta a ottanta ore settimanali sono
diventati moneta corrente. Tuttavia la paga non tiene dietro necessariamente,
perché è ugualmente abitudine di non pagare le ore supplementari secondo la
tariffa legale o anche non pagarle del tutto.
Il fatto è che i «manager» devono rispettare le linee di budget e le quote che
vengono loro imposte. Allora essi sono spinti a «rettificare» sui loro PC il
numero delle ore lavorate, a impedire ai dipendenti di fare pausa, a defalcare
i tempi morti, a fare sgobbare i loro subordinati senza lasciare traccia,
impedendo loro di timbrare il cartellino. Fino a minacciare di licenziamento
colui o colei che osasse protestare o non avesse ben capito che «le ore
supplementari sono vietate!».
Sono pure spronati a sostituire secondo il loro beneplacito una parte delle
loro squadre con «effettivi a tempo», la massa della mano d’opera d’appoggio (contingent
workers), una parte della quale viene reclutata per telefono per incarichi
occasionali. Vi si trovano lavoratori temporanei (o «consultant»),
«indipendenti», free-lance e altri, ovvero circa diciotto milioni di persone
nel 2005, senza tenere conto dei lavoratori – lavoratrici soprattutto – a tempo
parziale (il cui numero è equivalente). Si fa appello ugualmente a una mano
d’opera qualificata importata da fuori, dall’India per esempio, subordinando il
versamento d’indennità di licenziamento ai salariati congedati a condizione che
assicurino essi stessi, durante un mese, la formazione dei nuovi venuti.
Nel bel mezzo di un piano di eliminazione di posti di lavoro questi manager
sono capaci di dire: «Sorridi più spesso per mostrare a quale punto sei
riconoscente di avere ancora un lavoro!». Capita loro di chiudere a chiave le
squadre del lavoro notturno e talvolta di mettere il catenaccio perfino alle
uscite di emergenza. Gli immigranti «illegali» sono le prime vittime di
quest’ultimo metodo praticato dai grandi supermercati Wal-Mart (o dai loro
subappaltatori), ma anche da altri, fra i quali certi supermercati «etnici» di
New York.
Il maltrattamento sul lavoro non è un fenomeno isolato. Negli Stati Uniti è di
estensione nazionale e vi si manifesta in proporzioni estreme – come in certi
altri Paesi, fra i quali il Giappone descritto da Satoshi Kamata in Toyota,
la fabbrica della disperazione: «Ho spesso sentito raccontare la storia di
operai che si sono suicidati gettandosi dall’alto di un macchinario o dal tetto
della mensa. Coloro che me lo hanno raccontato mi dicevano che, stranamente,
questi fatti non erano riportati dalla stampa».
Meglio protetta nell’insieme, benché cosparsa di buchi neri e di zone di non
diritto, l’Europa occidentale non è risparmiata né dalla propagazione della
vulnerabilità né dalle pratiche del management aggressivo e dalle loro
conseguenze. Come può essere che i cittadini l’accettino e lo sopportino?
A una prima analisi vi si vedrà l’effetto della virulenta offensiva
antisindacale dei trenta ultimi anni, come lo sottolinea, per l’Europa, un
capitolo del libro collettivo intitolato Le conflit social éludé [Il
conflitto sociale eluso], e a maggior ragione quello della deregolamentazione e
dell’immensa costrizione esercitata dalle nuove forme di organizzazione del
lavoro. Queste hanno come particolarità quella di cercare di imporre alla
società un progetto «razionalizzatore», totalmente refrattario alla critica di
sé, mentre sfrutta l’immaginario e i desideri più intimi dei
cittadini-consumatori. In L’Idéal au travail [L’Ideale al lavoro] e Le
Travail du consommateur [Il Lavoro del consumatore], Marie-Anne Dujarier
approfondisce questa analisi e propone, in uno stile vivace, uno studio dei
meccanismi mediante i quali la soggettività dei salariati e anche, ma in modo
diverso, quella dei consumatori sono convocate, captate e strumentalizzate in
una ricerca permanente dell’«eccellenza» (9), del «sempre più» (redditizio,
eroico, disponibile, competitivo).
Irraggiungibile nella vita concreta, di questo ideale impossibile nondimeno è
pretesa l’attuazione da parte dei salariati. I dirigenti delle grandi imprese
impongono loro di essere all’altezza delle loro «responsabilità» e di
mobilitare le loro «capacità d’iniziativa» per rendere questo possibile e
risolvere, a pena di sanzioni, le contraddizioni e i conflitti inerenti alle
condizioni pratiche di realizzazione dell’attività. In altri termini, le
difficoltà del lavoro reale sono negate dalle gerarchie. O piuttosto «respinte»
a carico del salariato di base in una specie di «capitombolo prescrittivo».
Sorpreso, il lettore si accorge, in quanto consumatore, di essere anch’egli
sfruttato e di «lavorare», sotto forme diverse, per accrescere il patrimonio
dei predatori. Fra le altre cose e suo malgrado egli diviene uno strumento di
coercizione supplementare usato contro il lavoratore salariato e il
«depositario di un lavoro di caporalato» sotto la forma precostituita del
«cliente re». Che egli lo voglia o no, partecipa all’occultazione del potere,
alla messa in concorrenza di tutti contro tutti e all’alienazione sociale e
culturale.
Tuttavia è necessario andare più lontano di un semplice mettere in evidenza lo
sfruttamento, la costrizione o la dominazione, se si vuole prendere la misura
effettiva delle loro conseguenze. Come può accadere, s’interroga Emmanuel
Renault (Souffrances sociales. Philosophie, psychologie et politique),
che i soggetti sociali siano portati a fare ciò che essi considerano
esplicitamente come ingiusto o indegno, immorale o perverso? Per esempio,
tollerare il licenziamento dei colleghi, accettare l’aggravamento delle
condizioni di lavoro e di remunerazione, chiudere gli occhi sulle molestie
delle quali gli altri sono vittime o, alternativamente, sentirsi colpevole
quando si è a propria volta maltrattati?
Colui o colei che si «anestetizza» così per sopportare situazioni sociali
«normalmente» insopportabili ne paga il prezzo con una sofferenza la cui
origine e le cui conseguenze sociali e politiche sono facilmente negate.
Variabili secondo gli individui, le molteplici espressioni di questa sofferenza
(alcolismo, depressione, suicidio sul luogo di lavoro…) sono rimandate alle
angosce della psicologia individuale, strumentalizzate per rendere invisibili i
problemi sociali e spossessare gli individui del loro potere di rivendicazione.
E per bloccare a catenaccio, ancora di più, un ordine economico e politico che
«elude» il conflitto e non ne riconosce la legittimità.
Note:
(1) Glenn Collins, « Tough leader wields the ax at Scott », The New York Times,
15 août 1994. Cf aussi Steven Greenhouse, The Big Squeeze, p. 83-85.
(2) Ibid.
(3) James K. Galbraith, The Predator State. How Conservatives Abandoned the
Free Market and Whv Liberals Should Too, The Free Press, New York, 2008.
(4) Come
lo ha potuto dire negli anni ’70 il presidente Richard Nixon, citato da
Gosselin.
(5)Il termine empowerment, molto alla moda, non ha traduzione in
francese; è polisemico e rimanda all’idea che all’individuo si danno i mezzi,
il «potere» di prendere a suo carico sé stesso.
(6) Questo cambiamento di sistema ha permesso al gruppo Caterpillar, per
esempio, di aumentare i suoi profitti di 75 milioni di dollari in un anno.
(7) fra il 200 e il 2006 il numero dlle persone private
dell’assicurazione-malattia negli Stati Uniti è passato da otto milioni
seicentomila a quarantasette milioni. Nello stesso periodo, a causa degli
aumenti imposti dai capi d’impresa, l’ammontare della partecipazione
finanziaria dei salariati a un’assicurazione-malattia è aumentata a favore del
datore di lavoro dell’83%.
(8) Gli immigrati che lavorano illegalmente negli Stati Uniti sono stimati in
sette milioni.
(9)
Cf. Nicole Aubert et Vincent de Gaulejac, Le Coüt de l'excellence, Seuil,
Paris, 1991.
*Noëlle Burgi, ricercatrice al Centro di ricerche politiche della Sorbona e al Centro nazionale della ricerca scientifica.