Salariati acrobati per lavori senza rete

di Noëlle Burgi *- Le Monde Diplomatique - traduzione dal francese di José F. Padova - 22/03/2009
Ieri glorificati, i predatori cominciano tuttavia a essere denunciati in quanto tali negli Stati Uniti, il Paese che, a partire dall’inizio degli anni ’80, ha dato l’esempio di uno smantellamento sistematico del contratto sociale

«Io amo i predatori. Li amo perché vivono d’espedienti». Siamo nell’agosto 1994. l’uomo che così si esprime, Albert J. Dunlap, è un grande esperto di ristrutturazioni industriali. Nel locale dove lavora qualche oggetto in bronzo intriga: due squali che descrivono un cerchio, posati sulla scrivania; un leone nell’atto di balzare, sul tavolo per le riunioni; un’aquila che attacca la sua preda nell’anticamera. Dunlap ha 52 anni. Qualche mese prima si è messo comodamente in pensione e si annoia un poco sui campi da golf e da tennis quando Scott Paper, l’impresa americana che nel 1907 ha inventato la carta igienica in rotoli, lo chiama.

Nelle settimane che seguono la sua assunzione egli annuncia la soppressione imminente di quasi undicimila posti di lavoro, ovvero di un terzo degli effettivi. Un «dimagrimento» a tutti i livelli gerarchici, ma anche una «spolveratura»: «Occorre, egli ritiene, sbarazzarsi delle persone che rappresentano l’antica cultura [d’impresa], altrimenti esse vi avversano (1)». Dunlap ha fama e reputazione di non essere dotato del senso della diplomazia. Taglia nel vivo. Rievocandolo, il miliardario ultra-conservatore franco-britannico James Goldsmith confida: «Non ho mai incontrato qualcuno che sappia meglio di lui risistemare un’impresa e prendere le rudi decisioni che s’impongono. È un chirurgo, nel senso che deve fare scorrere il sangue per risolvere il problema del paziente (2)».

Ieri glorificati, i predatori cominciano tuttavia a essere denunciati in quanto tali negli Stati Uniti, il Paese che, a partire dall’inizio degli anni ’80, ha dato l’esempio di uno smantellamento sistematico del contratto sociale.

La «rivoluzione» reganiana e le sue conseguenze? Nell’essenziale «una truffa orchestrata da uno Stato predatore», accusa James K. Galbraith, economista all’Università del Texas (3). L’eccellenza manageriale? Di fatto uno sfruttamento generalizzato, spietato e dispotico della mano d’opera, una «grande estorsione», dimostra nella sua opera The Big Squeeze il corrispondente del New York Times Steven Greenhouse. La promessa di una prosperità per tutti, secondo una logica «vincente-vincente», purché ognuno si «responsabilizzi» e dia il meglio di sé? Piuttosto una sovraesposizione degli individui e delle famiglie ai rischi sociali – rischi al di fuori del loro controllo e dei loro mezzi finanziari, la cui incidenza cresce e che non sono più o quasi più coperti. È l’argomento centrale sviluppato da Peter Gosselin, corrispondente del Los Angeles Times, in High Wire.

Questa violenza negli Stati Uniti è oggi estrema. Contrariamente a un’idea assai diffusa in Europa, non è sempre stato così. Il connubio fra l’arretramento della protezione sociale e la generalizzazione del management aggressivo ha raggiunto progressivamente tutti gli strati sociali, eccetto la piccola frangia dei più ricchi. Ancora affascinata da un «modello» americano molto screditato dall’attuale crisi finanziaria, l’Europa è andata nella medesima direzione, come lo testimoniano altre opere qui presentate. Nel complesso esse dimostrano che sono sempre più numerosi i cittadini dei Paesi ricchi che vengono abbandonati a loro stessi, alla loro responsabilità personale o alle loro difficoltà psicologiche quando sono messi di fronte all’ingiustizia del sistema.

Il sistema americano di protezione sociale si fonda su tre complessi di prestazioni. Il primo è fornito dai dispositivi pubblici, di entità minimalista, di ricorso estremo e d’accesso limitato. Il secondo insieme, di gran lunga il più importante, è costituito dalle prestazioni che le imprese forniscono ai loro dipendenti, innanzitutto in materia di malattie, di handicap e di pensioni. Il terzo, a carico degli individui, dipende dalla loro capacità di auto-finanziare la propria polizza d’assicurazione privata.
Questo sistema differisce molto sensibilmente dai «modelli» sociali europei, ma i suoi sistemi di base non ne sono così distanti come appare.

Durante i quattro decenni che sono seguiti alla creazione della Social Security da parte di Franklin Roosevelt, nel 1935, la sua ragione d’essere derivava dalla preoccupazione di preservare gli equilibri sociali essenziali, di fare sì che un insieme di obblighi reciproci controbilanciasse i valori del mercato e il principio di libertà individuale. Si riconosceva esplicitamente, e lo si riaffermava periodicamente, che gli individui non sono in grado di assumere da soli i rischi dell’esistenza e che la solidarietà sociale «concorre alla stabilità, alla salute, alla giustizia e all’umanità del nostro sistema di impresa privata (4)».

Nonostante le imperfezioni del sistema questa filosofia era alla base del contratto sociale. Essa è volata in pezzi. Spazzata via dalla dottrina del libero mercato, è stata rimpiazzata da una retorica magnificante le virtù dell’ empowerment (5) e della «responsabilità» individuale. La riattivazione di queste nozioni ambivalenti (che propalavano il «sogno americano» del self-made-man, ancora molto ricco di significato) e le contemporanee campagne di denigrazione del big government hanno largamente contribuito a distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica e a rendere invisibile l’ampiezza del lavoro di smantellamento.

Come nota Gosselin nella sua introduzione, i dibattiti del periodo contemporaneo si sono focalizzati sul ramo più debole della protezione, i dispositivi pubblici. Questi riguardano l’assistenza sociale, la disoccupazione, la malattia, il pensionamento e altre prestazioni, tutte concesse a condizioni (molto restrittive) di disponibilità delle risorse. Perfino la frazione povera, addirittura molto povera, della popolazione non vi ha obbligatoriamente accesso (specialmente in caso di malattia).

Attaccati in modo ripetitivo, ivi compreso William “Bill” Clinton (1993-2001), la loro revisione al ribasso giustificava ampiamente forti proteste, tanto essa accresceva l’ingiustizia, già grande, della società nei confronti dei più bisognosi. Tuttavia, durante questo periodo, nel settore privato il nocciolo del sistema (datori di lavoro e compagnie d’assicurazioni) veniva anch’esso profondamente rimaneggiato. E questo è passato per la maggior parte inosservato: non vi è stata, se non in modo circoscritto, reazione aperta e collettiva contro il degrado, perfino la soppressione, di queste prestazioni.

Informare gli assicurati con un linguaggio praticamente incomprensibile e deliberatamente ambiguo
Queste [le assicurazioni] coprono un vasto ventaglio di rischi sociali vitali e rappresentano l’equivalente di un salario differito – termine questo che non è più comunemente usato, perché le elite europee gli preferiscono la nozione di «carichi sociali». Nel passato esse hanno garantito una protezione sostanziale per i salariati, soprattutto per quelli della grande industria, anche se erano percepite come vantaggi marginali (da cui l’espressione fringe benefits): finché durava la stabilità economica era possibile considerarle con una certa noncuranza.

La loro messa in discussione è stata semplificata dal fatto che non si trattava, a dire il vero, di diritti sociali garantiti dalla legge. Le imprese erano incitate da riduzioni d’imposta a offrire una copertura sociale ai loro dipendenti e a lungo non hanno avuto altro, all’occorrenza, che un obbligo morale a tenere fede ai loro impegni. La copertura sociale è diventata legale una decina d’anni dopo lo shock causato nel 1963 dall’incapacità del costruttore d’automobili Studebaker di onorare, al di là del 15% del loro valore, gli impegni presi di garantire le pensioni ai suoi settemila dipendenti licenziati dopo la chiusura della sua fabbrica di South Bend (Indiana).

Una legge del 1974 ha quindi costretto le imprese a costituire un fondo di riserva per evitare la ripetizione di questo genere di fatti. Ma nel 1985 la prima di una serie di sentenze della Corte suprema interpretava questa legge in senso favorevole alle imprese e alle compagnie di assicurazioni: contrariamente alle intenzioni del legislatore non sarebbero stati più protetti gli individui, bensì la salute dei Fondi.

La legge si è così trasformata in uno strumento per ammorbidire, se non per cancellare totalmente, gli obblighi dei datori di lavoro e delle compagnie di assicurazioni verso gli assicurati. La crociata contro i «carichi sociali» ne è stata avvantaggiata in uguale misura. Altri dispositivi sono stati opportunisticamente immaginati per ritorcere contro gli individui la responsabilità dei rischi sociali. Le compagnie di assicurazione hanno così sviluppato tecniche molto sofisticate per non dover coprire, in parte o del tutto, i rischi che esse d’altra parte pretendono di prendersi a carico – e per informarne gli assicurati in un linguaggio tecnico praticamente incomprensibile e deliberatamente ambiguo.

In questo modo nel 2005, nonostante l’uragano Katrina e qualche altra grande tempesta, i profitti dell’industria delle assicurazioni avevano raggiunto un record di 45 miliardi di dollari. Altro esempio, i piani 401 (k), introdotti a partire al 1976: sistemi di risparmio-pensioni per le imprese meno onerosi dei vecchi piani di pensionamento offerti ai dipendenti. Le imprese sempre in maggior numero hanno sostituito i primi ai secondi. I 401 (k) sono così diventati uno «strumento strategico» per aumentare la competitività (6); e per trasferire i rischi d’insolvibilità sui beneficiari, il risparmio-pensione veniva investito sul mercato finanziario, talvolta perfino in azioni dell’azienda datrice di lavoro (era il caso della Enron).

Infine, in caso di perdita del lavoro, prestazioni sociali come l’assicurazione-malattia, quando esiste, sono interrotte o perdute, eccettuato il caso in cui la persona disoccupata o «in transito» verso un nuovo impiego generalmente meno remunerato, possiede i mezzi per finanziare da sé i premi assicurativi (aumentati delle spese amministrative) (7).

Analizzando la crisi del 1929 due economisti (citati da Gosselin), Richard Burkhauser e Greg Duncan, hanno dimostrato che il crollo della Borsa e la disoccupazione non spiegano da soli le difficoltà incontrate allora dagli Americani. A quell’epoca pochi erano coinvolti nel mercato finanziario e il 75% dei salariati avevano conservato il loro lavoro. Perché l’esistenza di una famiglia vacillasse bastava una manciata di avvenimenti ordinari: una malattia, un incidente, un divorzio, la nascita inaspettata di un figlio, una diminuzione del salario o delle ore di lavoro.

Proseguendo il loro ragionamento e studiando, questa volta, il periodo, propizio, degli anni ’70 e ’80, i medesimi ricercatori hanno osservato un fenomeno identico. Come Gosselin dimostra attraverso racconti di vita e molte altre fonti d’informazione, il «caos economico» non ha fatto altro che accentuare questa tendenza. Favorite dalle chiusure di imprese, in uno stesso anno quasi altrettanto numerose delle aperture, o anche dalle permanenti ristrutturazioni e riorganizzazioni, si sono moltiplicate le situazioni nelle quali gli individui, messi di fronte a brutali diminuzioni del reddito, scoprono di avanzare su una corda tesa ma senza rete sotto, contrariamente a ciò che si sarebbero potuti attendere se fossero stati assicurati.

Il management aggressivo prospera proprio su questa base d’insicurezza sociale. «Se vuoi essere amato, prenditi un cane. Ma negli affari fatti rispettare!», spiega Dunlap. Per ottenere salariati che lavorino duro non vi sono che due metodi: ricompensarli o punirli, afferma il professor Jerry Newman, interrogato da Greenhouse.

Se si vuole controllare i costi con budget costantemente ristretti occorre quindi punirli. Esercitare pressione, spietatamente, su di loro, brutalizzarli, intimidirli, umiliarli, tormentarli, spingere sempre più lontano il limite delle proprie esigenze e non esitare a infrangere la legge. Di già debole negli Stati Uniti, la regolamentazione viene così agevolmente aggirata per estorcere tutto quello che può esserlo dal «lavoratore impaurito», sottoposto alla forte concorrenza della mano d’opera illegale (8) e perfino, in certi casi, del lavoro minorile. I «lavori estremi» da sessanta a ottanta ore settimanali sono diventati moneta corrente. Tuttavia la paga non tiene dietro necessariamente, perché è ugualmente abitudine di non pagare le ore supplementari secondo la tariffa legale o anche non pagarle del tutto.

Il fatto è che i «manager» devono rispettare le linee di budget e le quote che vengono loro imposte. Allora essi sono spinti a «rettificare» sui loro PC il numero delle ore lavorate, a impedire ai dipendenti di fare pausa, a defalcare i tempi morti, a fare sgobbare i loro subordinati senza lasciare traccia, impedendo loro di timbrare il cartellino. Fino a minacciare di licenziamento colui o colei che osasse protestare o non avesse ben capito che «le ore supplementari sono vietate!».

Sono pure spronati a sostituire secondo il loro beneplacito una parte delle loro squadre con «effettivi a tempo», la massa della mano d’opera d’appoggio (contingent workers), una parte della quale viene reclutata per telefono per incarichi occasionali. Vi si trovano lavoratori temporanei (o «consultant»), «indipendenti», free-lance e altri, ovvero circa diciotto milioni di persone nel 2005, senza tenere conto dei lavoratori – lavoratrici soprattutto – a tempo parziale (il cui numero è equivalente). Si fa appello ugualmente a una mano d’opera qualificata importata da fuori, dall’India per esempio, subordinando il versamento d’indennità di licenziamento ai salariati congedati a condizione che assicurino essi stessi, durante un mese, la formazione dei nuovi venuti.

Nel bel mezzo di un piano di eliminazione di posti di lavoro questi manager sono capaci di dire: «Sorridi più spesso per mostrare a quale punto sei riconoscente di avere ancora un lavoro!». Capita loro di chiudere a chiave le squadre del lavoro notturno e talvolta di mettere il catenaccio perfino alle uscite di emergenza. Gli immigranti «illegali» sono le prime vittime di quest’ultimo metodo praticato dai grandi supermercati Wal-Mart (o dai loro subappaltatori), ma anche da altri, fra i quali certi supermercati «etnici» di New York.

Il maltrattamento sul lavoro non è un fenomeno isolato. Negli Stati Uniti è di estensione nazionale e vi si manifesta in proporzioni estreme – come in certi altri Paesi, fra i quali il Giappone descritto da Satoshi Kamata in Toyota, la fabbrica della disperazione: «Ho spesso sentito raccontare la storia di operai che si sono suicidati gettandosi dall’alto di un macchinario o dal tetto della mensa. Coloro che me lo hanno raccontato mi dicevano che, stranamente, questi fatti non erano riportati dalla stampa».

Meglio protetta nell’insieme, benché cosparsa di buchi neri e di zone di non diritto, l’Europa occidentale non è risparmiata né dalla propagazione della vulnerabilità né dalle pratiche del management aggressivo e dalle loro conseguenze. Come può essere che i cittadini l’accettino e lo sopportino?

A una prima analisi vi si vedrà l’effetto della virulenta offensiva antisindacale dei trenta ultimi anni, come lo sottolinea, per l’Europa, un capitolo del libro collettivo intitolato Le conflit social éludé [Il conflitto sociale eluso], e a maggior ragione quello della deregolamentazione e dell’immensa costrizione esercitata dalle nuove forme di organizzazione del lavoro. Queste hanno come particolarità quella di cercare di imporre alla società un progetto «razionalizzatore», totalmente refrattario alla critica di sé, mentre sfrutta l’immaginario e i desideri più intimi dei cittadini-consumatori. In L’Idéal au travail [L’Ideale al lavoro] e Le Travail du consommateur [Il Lavoro del consumatore], Marie-Anne Dujarier approfondisce questa analisi e propone, in uno stile vivace, uno studio dei meccanismi mediante i quali la soggettività dei salariati e anche, ma in modo diverso, quella dei consumatori sono convocate, captate e strumentalizzate in una ricerca permanente dell’«eccellenza» (9), del «sempre più» (redditizio, eroico, disponibile, competitivo).

Irraggiungibile nella vita concreta, di questo ideale impossibile nondimeno è pretesa l’attuazione da parte dei salariati. I dirigenti delle grandi imprese impongono loro di essere all’altezza delle loro «responsabilità» e di mobilitare le loro «capacità d’iniziativa» per rendere questo possibile e risolvere, a pena di sanzioni, le contraddizioni e i conflitti inerenti alle condizioni pratiche di realizzazione dell’attività. In altri termini, le difficoltà del lavoro reale sono negate dalle gerarchie. O piuttosto «respinte» a carico del salariato di base in una specie di «capitombolo prescrittivo».

Sorpreso, il lettore si accorge, in quanto consumatore, di essere anch’egli sfruttato e di «lavorare», sotto forme diverse, per accrescere il patrimonio dei predatori. Fra le altre cose e suo malgrado egli diviene uno strumento di coercizione supplementare usato contro il lavoratore salariato e il «depositario di un lavoro di caporalato» sotto la forma precostituita del «cliente re». Che egli lo voglia o no, partecipa all’occultazione del potere, alla messa in concorrenza di tutti contro tutti e all’alienazione sociale e culturale.

Tuttavia è necessario andare più lontano di un semplice mettere in evidenza lo sfruttamento, la costrizione o la dominazione, se si vuole prendere la misura effettiva delle loro conseguenze. Come può accadere, s’interroga Emmanuel Renault (Souffrances sociales. Philosophie, psychologie et politique), che i soggetti sociali siano portati a fare ciò che essi considerano esplicitamente come ingiusto o indegno, immorale o perverso? Per esempio, tollerare il licenziamento dei colleghi, accettare l’aggravamento delle condizioni di lavoro e di remunerazione, chiudere gli occhi sulle molestie delle quali gli altri sono vittime o, alternativamente, sentirsi colpevole quando si è a propria volta maltrattati?

Colui o colei che si «anestetizza» così per sopportare situazioni sociali «normalmente» insopportabili ne paga il prezzo con una sofferenza la cui origine e le cui conseguenze sociali e politiche sono facilmente negate. Variabili secondo gli individui, le molteplici espressioni di questa sofferenza (alcolismo, depressione, suicidio sul luogo di lavoro…) sono rimandate alle angosce della psicologia individuale, strumentalizzate per rendere invisibili i problemi sociali e spossessare gli individui del loro potere di rivendicazione. E per bloccare a catenaccio, ancora di più, un ordine economico e politico che «elude» il conflitto e non ne riconosce la legittimità.

Note:
(1) Glenn Collins, « Tough leader wields the ax at Scott », The New York Times, 15 août 1994. Cf aussi Steven Greenhouse, The Big Squeeze, p. 83-85.
(2) Ibid.
(3) James K. Galbraith, The Predator State. How Conservatives Abandoned the Free Market and Whv Liberals Should Too, The Free Press, New York, 2008.
(4) Come lo ha potuto dire negli anni ’70 il presidente Richard Nixon, citato da Gosselin.
(5)Il termine empowerment, molto alla moda, non ha traduzione in francese; è polisemico e rimanda all’idea che all’individuo si danno i mezzi, il «potere» di prendere a suo carico sé stesso.
(6) Questo cambiamento di sistema ha permesso al gruppo Caterpillar, per esempio, di aumentare i suoi profitti di 75 milioni di dollari in un anno.
(7) fra il 200 e il 2006 il numero dlle persone private dell’assicurazione-malattia negli Stati Uniti è passato da otto milioni seicentomila a quarantasette milioni. Nello stesso periodo, a causa degli aumenti imposti dai capi d’impresa, l’ammontare della partecipazione finanziaria dei salariati a un’assicurazione-malattia è aumentata a favore del datore di lavoro dell’83%.
(8) Gli immigrati che lavorano illegalmente negli Stati Uniti sono stimati in sette milioni.
(9) Cf. Nicole Aubert et Vincent de Gaulejac, Le Coüt de l'excellence, Seuil, Paris, 1991.

*Noëlle Burgi, ricercatrice al Centro di ricerche politiche della Sorbona e al Centro nazionale della ricerca scientifica.

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