"Situazione disperata ma non seria": il titolo di Robert Shaw appare ogni giorno di più la migliore descrizione della fase che sta attraversando nostro Paese.
La vittoria di Berlusconi nel 2001 lasciò i partiti di centro e di sinistra storditi e quasi incapaci di reazione; fu necessaria la mobilitazione spontanea di quella che venne definita "società civile", che si organizzò in "girotondi" e altri movimenti, per dimostrare che la storia dell’Italia democratica non era finita. La reazione alla sconfitta accomunò gli elettori di tutti i partiti dell’arco costituzionale e fece scendere in piazza persone che non avevano mai partecipato in precedenza ad una manifestazione politica.
L’onda lunga di quel movimento, che trascinò con sé le incerte nomenklature dei partiti, è arrivata fino alla grande vittoria del NO nel referendum del 2006, che ha bloccato il tentativo di stravolgere le nostre istituzioni repubblicane e antifasciste.
Al trionfo berlusconiano di quest’anno è invece seguito solo il caos suicida dei partitini della sinistra e l’introversione di un PD impegnato prevalentemente in problemi interni e incapace di presentare una linea politica realmente alternativa a quella del vincitore.
Perché l’esito delle ultime politiche non può essere interpretato solo su un piano strettamente numerico, e la soddisfazione del leader del PD per il risultato della sua lista appare preoccupante per la sua miopia.
La realtà ci dice che una parte importante di elettori non è rappresentata nel nostro Parlamento e che è ancora cresciuta, a 60 anni dalla nascita della Repubblica, la percentuale di quanti hanno votato esplicitamente contro i valori fondamentali della democrazia: indipendenza della Magistratura, uguaglianza davanti alla legge, libertà di informazione, solidarietà, pace, laicità dello Stato. Elettori che spesso hanno scelto sull’onda della delusione per l’incapacità del centro-sinistra di formulare proposte concrete su temi quali la sicurezza, il funzionamento dei servizi pubblici, la moralizzazione della politica.
Questo elettorato vincente (pur non essendo numericamente maggioritario) ha consegnato all’uomo che simboleggia il più grave dei conflitti di interesse un potere di fatto assoluto derivante da una legge elettorale assurda, che il breve e deludente (non per colpa di Prodi) governo del centro-sinistra non ha saputo o voluto cancellare. La situazione è dunque drammatica.
Oggi non possiamo non chiederci dove sono finiti i protagonisti dei movimenti. Non i loro leader, che sono stati in gran parte cooptati in modo indolore nella "classe dirigente", ma i cittadini e le cittadine che non hanno mai rilasciato dichiarazioni alla stampa, né sono mai apparsi in qualche salotto televisivo, ritenendo però dovere civico testimoniare la loro volontà di continuare a vivere in un Paese che non dimentichi di essere nato dalla sconfitta della dittatura e dalle ceneri di un conflitto nato dal razzismo più bestiale manovrato da gruppi di potere anche economico.
Proprio la incapacità di questa "società civile", in gran parte formata da persone professionalmente capaci, eticamente coerenti, che animano magari i blog e i rari dibattiti pubblici (quelli non monopolizzati dalla solita passerella di professionisti della politica), a far pesare la propria presenza rende la situazione priva di prospettive.
Ma questo "silenzio della ragione" non è casuale né inevitabile; è la conseguenza della progressiva compressione degli spazi di espressione e di partecipazione che le forze politiche tradizionali hanno voluto o accettato, e che si è realizzata a livello locale con il passaggio del potere reale dai consigli ai sindaci e ai presidenti, con la cancellazione del potere di scelta degli elettori derivante dalla soppressione delle preferenze e dalla introduzione delle liste bloccate decise dalle segreterie, con la "personalizzazione" del confronto politico (si scelgono le facce, non più le idee), con l’accettazione del monopolio televisivo e la pratica sistematica della menzogna e della diffamazione degli oppositori e dei magistrati; con la rinuncia alla realizzazione dei Principi costituzionali e l’accettazione strisciante della possibilità di modificare la Costituzione per concentrare ancora di più il potere (e la ricchezza) in poche mani.
Il mito della stabilità degli esecutivi rischia di divenire l’alibi per far prevalere l’idea della "fine della storia" dei sistemi democratici parlamentari e un "pensiero unico" fondato sul primato dei consumi individuali e sul PIL come metro di misura della civiltà.
In questo quadro si vorrebbero cancellare le correnti di dissenso che stanno invece crescendo in tutte le società occidentali e denunciano la necessità di nuove politiche in grado di arrestare il disastro ambientale, di redistribuire più equamente le risorse del pianeta e di evitare il dilagare della criminalità, la violenza e le guerre che ne sono la principale conseguenza.
Anche nel nostro Paese si moltiplicano le associazioni, i movimenti, le "reti" che non accettano la affrettata rinuncia a modelli sociali più giusti e la legittimazione di forze politiche che devono i loro consensi in gran parte alla disinformazione gestita dal monopolio televisivo e quotidianamente lavorano per cancellare diritti e creare nuovi privilegi.
L’aspetto non serio della situazione è proprio costituito dall’arroccamento delle nomenklature e dalle incredibili resistenze che impediscono a tutte queste iniziative di fondersi in un unico grande movimento politico nuovo, superando le storie passate, i personalismi, le primogeniture e le tentazioni frazioniste in nome, intanto, di poche priorità fondamentali che ne facciano una reale alternativa alla cultura della nuova destra, prima ancora che alla politica contingente da essa realizzata.
E’ dunque nuovamente necessaria una iniziativa che nasca dal basso, libera dalla responsabilità degli errori di questi anni, intransigente sui principi e aperta al confronto sui problemi concreti, capace di dare voce a chi oggi non ne ha dentro e fuori le forze politiche organizzate.
Quest’area di radicalità ideale e di senso di responsabilità civile non può essere certo autosufficiente, ma è indispensabile, nel nostro Paese e in tutta l’Europa, a qualunque disegno di inversione della tendenza a scivolare verso l’autoritarismo interno e i nuovi imperialismi che tornano ad affacciarsi sulla scena mondiale.
La vittoria di Berlusconi nel 2001 lasciò i partiti di centro e di sinistra storditi e quasi incapaci di reazione; fu necessaria la mobilitazione spontanea di quella che venne definita "società civile", che si organizzò in "girotondi" e altri movimenti, per dimostrare che la storia dell’Italia democratica non era finita. La reazione alla sconfitta accomunò gli elettori di tutti i partiti dell’arco costituzionale e fece scendere in piazza persone che non avevano mai partecipato in precedenza ad una manifestazione politica.
L’onda lunga di quel movimento, che trascinò con sé le incerte nomenklature dei partiti, è arrivata fino alla grande vittoria del NO nel referendum del 2006, che ha bloccato il tentativo di stravolgere le nostre istituzioni repubblicane e antifasciste.
Al trionfo berlusconiano di quest’anno è invece seguito solo il caos suicida dei partitini della sinistra e l’introversione di un PD impegnato prevalentemente in problemi interni e incapace di presentare una linea politica realmente alternativa a quella del vincitore.
Perché l’esito delle ultime politiche non può essere interpretato solo su un piano strettamente numerico, e la soddisfazione del leader del PD per il risultato della sua lista appare preoccupante per la sua miopia.
La realtà ci dice che una parte importante di elettori non è rappresentata nel nostro Parlamento e che è ancora cresciuta, a 60 anni dalla nascita della Repubblica, la percentuale di quanti hanno votato esplicitamente contro i valori fondamentali della democrazia: indipendenza della Magistratura, uguaglianza davanti alla legge, libertà di informazione, solidarietà, pace, laicità dello Stato. Elettori che spesso hanno scelto sull’onda della delusione per l’incapacità del centro-sinistra di formulare proposte concrete su temi quali la sicurezza, il funzionamento dei servizi pubblici, la moralizzazione della politica.
Questo elettorato vincente (pur non essendo numericamente maggioritario) ha consegnato all’uomo che simboleggia il più grave dei conflitti di interesse un potere di fatto assoluto derivante da una legge elettorale assurda, che il breve e deludente (non per colpa di Prodi) governo del centro-sinistra non ha saputo o voluto cancellare. La situazione è dunque drammatica.
Oggi non possiamo non chiederci dove sono finiti i protagonisti dei movimenti. Non i loro leader, che sono stati in gran parte cooptati in modo indolore nella "classe dirigente", ma i cittadini e le cittadine che non hanno mai rilasciato dichiarazioni alla stampa, né sono mai apparsi in qualche salotto televisivo, ritenendo però dovere civico testimoniare la loro volontà di continuare a vivere in un Paese che non dimentichi di essere nato dalla sconfitta della dittatura e dalle ceneri di un conflitto nato dal razzismo più bestiale manovrato da gruppi di potere anche economico.
Proprio la incapacità di questa "società civile", in gran parte formata da persone professionalmente capaci, eticamente coerenti, che animano magari i blog e i rari dibattiti pubblici (quelli non monopolizzati dalla solita passerella di professionisti della politica), a far pesare la propria presenza rende la situazione priva di prospettive.
Ma questo "silenzio della ragione" non è casuale né inevitabile; è la conseguenza della progressiva compressione degli spazi di espressione e di partecipazione che le forze politiche tradizionali hanno voluto o accettato, e che si è realizzata a livello locale con il passaggio del potere reale dai consigli ai sindaci e ai presidenti, con la cancellazione del potere di scelta degli elettori derivante dalla soppressione delle preferenze e dalla introduzione delle liste bloccate decise dalle segreterie, con la "personalizzazione" del confronto politico (si scelgono le facce, non più le idee), con l’accettazione del monopolio televisivo e la pratica sistematica della menzogna e della diffamazione degli oppositori e dei magistrati; con la rinuncia alla realizzazione dei Principi costituzionali e l’accettazione strisciante della possibilità di modificare la Costituzione per concentrare ancora di più il potere (e la ricchezza) in poche mani.
Il mito della stabilità degli esecutivi rischia di divenire l’alibi per far prevalere l’idea della "fine della storia" dei sistemi democratici parlamentari e un "pensiero unico" fondato sul primato dei consumi individuali e sul PIL come metro di misura della civiltà.
In questo quadro si vorrebbero cancellare le correnti di dissenso che stanno invece crescendo in tutte le società occidentali e denunciano la necessità di nuove politiche in grado di arrestare il disastro ambientale, di redistribuire più equamente le risorse del pianeta e di evitare il dilagare della criminalità, la violenza e le guerre che ne sono la principale conseguenza.
Anche nel nostro Paese si moltiplicano le associazioni, i movimenti, le "reti" che non accettano la affrettata rinuncia a modelli sociali più giusti e la legittimazione di forze politiche che devono i loro consensi in gran parte alla disinformazione gestita dal monopolio televisivo e quotidianamente lavorano per cancellare diritti e creare nuovi privilegi.
L’aspetto non serio della situazione è proprio costituito dall’arroccamento delle nomenklature e dalle incredibili resistenze che impediscono a tutte queste iniziative di fondersi in un unico grande movimento politico nuovo, superando le storie passate, i personalismi, le primogeniture e le tentazioni frazioniste in nome, intanto, di poche priorità fondamentali che ne facciano una reale alternativa alla cultura della nuova destra, prima ancora che alla politica contingente da essa realizzata.
E’ dunque nuovamente necessaria una iniziativa che nasca dal basso, libera dalla responsabilità degli errori di questi anni, intransigente sui principi e aperta al confronto sui problemi concreti, capace di dare voce a chi oggi non ne ha dentro e fuori le forze politiche organizzate.
Quest’area di radicalità ideale e di senso di responsabilità civile non può essere certo autosufficiente, ma è indispensabile, nel nostro Paese e in tutta l’Europa, a qualunque disegno di inversione della tendenza a scivolare verso l’autoritarismo interno e i nuovi imperialismi che tornano ad affacciarsi sulla scena mondiale.