“Spillover”. C’è bisogno di uno “spillover”. Questa parola è diventata popolare grazie a David Quammen (Spillover. L’evoluzione delle pandemie, Adelphi, 2014), che qualche anno fa raccontò i virus, in particolare il ceppo cui appartiene il Covid-19. In inglese vuol dire «debordare», «tracimare su», ed è in certo modo l’equivalente del termine scientifico «zoonosi», quel che avviene quando un virus ”tracima” da una specie a un’altra. Volendo attribuire delle intenzioni della natura, si potrebbe dire che scatenando i virus, o reagendo ai gas serra ecc., essa crea nuovi “protocolli” per gli esseri umani, come non toccarsi e parlarsi da dietro una mascherina, e questi sono tra gli effetti più lievi.
Ma se, come ha scritto Angel Lara in un articolo molto letto (https://ilmanifesto.it/covid-19-non-torniamo-alla-normalita-la-normalita-e-il-problema/), non possiamo augurarci di ritornare alla normalità perché è la normalità il problema, allora bisognerebbe attrezzarsi urgentemente per creare una nuova normalità. E per farlo occorre uno “spillover” culturale, una tracimazione di idee e progetti e modi di guardare il mondo fuori dal serbatoio obbligato in cui tutti siamo rinchiusi da quarant’anni, cioè dal dilagare del neoliberismo.
In questi giorni si leggono articoli che criticano, e giustamente, il modo in cui i politici, gli industriali, le borse e la stessa Unione europea stanno cercando un “recovery”, un recupero dell’economia, i cui prodotti interni lordi e altri indicatori stanno precipitando. Tutte le misure che vengono prese – tutte – hanno lo scopo di ripristinare la situazione che esisteva prima della pandemia, la “normalità”. Quindi la task force italiana della “fase due” è composta quasi esclusivamente di manager ed economisti (https://volerelaluna.it/commenti/2020/04/13/coronavirus-fase-2-guai-ai-poveri/). E il Governo italiano mette 400 miliardi a disposizione degli imprenditori perché possano avere la liquidità necessaria a “ripartire”. Per fabbricare cosa? Non importa, qualunque cosa, purché i fatturati riprendano a crescere. E a parte la miopia di incitare a riprendere la produzione quando gli scambi, anche di materie prime e componenti, ormai indispensabili ad ogni produzione e ad ogni esportazione (che pure viene finanziata alla cieca), sono bloccati dalla pandemia, questo significa che i prossimi lavoratori a cadere sotto l’infezione, dopo il personale sanitario, saranno gli operai, per quante mascherine si procureranno loro.
Tutte le politiche governative, in Europa e altrove, sono determinate da questo scopo cieco, benché già prima del virus l’economia stesse affondando nella palude di una globalizzazione fallita, abbattuta da una concorrenza globale che è un gioco perverso, perché produrre non importa cosa a costi sempre più bassi, trasportando le merci ovunque in mercati sempre più saturi, e ignorando le conseguenze sull’ecosistema, come i catastrofici incendi australiani, alla lunga produce i virus, tra l’altro.
Un portavoce del Pentagono ha paragonato il Covid-19 al bombardamento di Pearl Harbour, quando i giapponesi attaccarono a tradimento la base navale nelle Hawaii. All’ammiraglio Yamamoto, che guidava quell’attacco, è attribuita una di quelle frasi che passano alla storia: «Abbiamo risvegliato un gigante assopito», disse, alludendo alla potenza economica e industriale degli Stati uniti.
Cosa ha risvegliato il Covid-19? Se si perlustra internet si trovano, solo in Italia, migliaia di siti e di pagine individuali o di gruppo, che non si limitano a denunciare quanto stupido o malvagio sia il modo di reagire della politica e dell’economia, o a denunciare chi ha tentato di smantellare, in nome dell’austerità, uno dei migliori servizi sanitari pubblici del mondo. Si producono idee, frutto di esperienze professionali e del lavoro di associazioni e gruppi di ogni genere, che in Italia esistono – e agiscono – a migliaia. E chi ha una competenza cerca di trasmetterla ad altri. Per esempio gli urbanisti che dicono: è criminale buttare miliardi perché le imprese edilizie ricomincino a ricoprire di cemento il suolo e a distruggere i panorami, bisogna piuttosto recuperare a un uso pubblico i milioni di fabbricati di ogni tipo, vuoti. Sarebbe una riforma straordinaria, utile all’ambiente, al diritto all’abitare e alla bellezza dei luoghi (e la bellezza non è un bene superfluo). O ancora: vietare progressivamente le bottiglie di plastica dell’acqua minerale e allo stesso tempo ricostruire gli acquedotti, ri-pubblicizzandoli come chiedono i referendum vinti a suo tempo. Ricostruire una rete di trasporti di prossimità e urbani utilizzando i fondi dell’alta velocità e diradando le auto nelle città fino ad ammettere solo le elettriche. Questo elenco può continuare a lungo: le idee non mancano, le urgenze pure.
Gli stessi sindacati, costretti ad accettare la riapertura delle fabbriche dal ricatto sul lavoro degli operai, potrebbero, come il mitico Di Vittorio nel dopoguerra, gettarsi nella ricostruzione mettendoci dentro i bisogni dei lavoratori (e degli esclusi): l’edilizia popolare del Piano Fanfani, la riforma agraria e la cogestione delle fabbriche furono il frutto di questa politica, anche se poi la guerra fredda riportò in sella i vecchi padroni. Riuscite a immaginare quanti posti di lavoro creerebbe un piano di restauro del territorio e delle città? Milioni, letteralmente. E “restauro” non è una parola a caso: il neoliberismo senza guinzaglio ha avvelenato le acque e l’aria, ha ridotto le città a centri storici in vendita sul mercato turistico e le periferie a depositi di esseri umani asserviti o “esuberi”, inquinato le campagne con la chimica, costretto la comunicazione nella camicia di forza del mercato, disboscato e spopolato le colline di cui è fatto il nostro paese…
E allora, se ci sono o potrebbero esserci le idee e i progetti, perché i governi, i partiti politici, gran parte degli intellettuali e la quasi totalità dei giornalisti incitano a “tornare alla normalità” e mettono le chiavi in mano agli economisti e ai manager, i quali non possono che replicare quel che ci ha portato alla catastrofe?
Come ha scritto il filosofo spagnolo Amador Fernández–Savater nelle menti dei reclusi in casa “ribollono”, dietro la doverosa obbedienza alle misure anti-virus, dubbi, domande, crepe nella versione ufficiale dei fatti e del modo di uscirne. E, aggiunge Amador, può essere che questa soggettività dubbiosa si trasformi in modo imprevedibile in una soggettività collettiva, cioè politica. Non si sa, conclude lui (https://volerelaluna.it/rimbalzi/2020/04/11/vita-ed-esperienza-nella-crisi-del-coronavirus/).
Ma il gigante temuto da Yamamoto, quello molecolare, potrebbe prendere coscienza di sé e assumere, come già sta facendo, che quel che occorre, per una nuova normalità, è la difesa della natura e una economia femminista, cioè aliena dalla violenza strumentale del patriarcato. Così, i gruppi di amici e di interesse comune, di relazioni professionali, del volontariato, ambientalisti, di cura della povertà, e i sindacati, potrebbero costituirsi in gruppi più larghi, in “forum” o qualcosa del genere utili a elaborare compiutamente progetti, linee di riforma, a mettere insieme quel che si sa del territorio, del lavoro, della comunicazione, della fabbricazione di beni utili, della riparazione dei danni, insomma avremmo i singoli tasselli di un mosaico compiuto che rovesci il paradigma dell’economia ‒ si produce quel che si vende – in un nuovo paradigma della società o della vita ‒ si fabbrica quel che è utile e che non danneggia noi stessi e il pianeta ‒.
Certo, non è facile. Forse è impossibile. In ciascuno di noi fermenta la nostalgia per la libertà apparente, ma non per questo meno affascinante, del consumo senza limiti. E poi non c’è un interprete di una tale rivoluzione, chi se ne faccia portatore, qualcuno dice “un partito”, e dunque, dicono i più politici, non si può fare, omettendo il fatto che tutte le rivoluzioni hanno debordato da governi, parlamenti, poteri dati, e cercato forme nuove di espressione e organizzazione, e hanno trovato la maniera per costringere i poteri a cambiare strada.
Infine c’è l’economista, autorità morale suprema, che chiede: già, ma chi pagherebbe tutto questo? E la risposta è: chi paga il ritorno alla “normalità”, cioè noi, e magari i ricchi un po’ di più. Ma l’economista insiste: e i mercati e il ministro olandese delle finanze cosa direbbero? Risposta: chi se ne frega?
In fondo, come dice una battuta di umor nero che circola in Spagna, otro fin del mundo es posibile.