Il concetto di crescita economica continua erroneamente a identificarsi con grandi cantieri, grandi appalti, grandi opere. Per “sbloccare” le quali oggi si tolgono vincoli, si agevolano assegnazioni, si limitano i controlli. E si eliminano le già poco ascoltate valutazioni costi-benefici. Nel senso che i benefici ci sono sempre per chi progetta e realizza, ma non per la collettività, che si sobbarca i costi, sia economici, sia quelli – ben più gravi – ambientali. Una delle principali conseguenze delle grandi opere è il consumo irreversibile di suolo.
Il rapporto Ispra sul consumo di suolo certifica che ormai quasi l’8 per cento del Paese è sigillato sotto uno strato di cemento o asfalto. Parliamo di circa ventiquattromila chilometri quadrati, l’equivalente di un’Emilia-Romagna pavimentata per sempre. Parliamo di terreni fertilissimi sottratti all’agricoltura, di mancata infiltrazione delle acque in falda e maggior rischio alluvionale, mancata fotosintesi e cattura di CO2, perdita di bio diversità e peggioramento della qualità ambientale e paesaggistica. Un guadagno immediato per pochi e un guasto senza possibilità di riparazione per i millenni a venire.
L’arresto del consumo di suolo dovrebbe essere dunque una priorità politica nazionale e i cittadini dovrebbero sempre più rifiutare la nuova infrastrutturazione del territorio, che più che di aggiunte, avrebbe molto bisogno di manutenzione. Ed è questa la chiave per il mantenimento dei settori edilizio, viario e ferroviario, idrogeologico, e acquedottistico, che possono prosperare con interventi continui locali e capillari invece che con un insostenibile gigantismo cementizio, tuttavia assai gradito dalla lobby del betoncar per la facilità di incanalare in percorsi predefiniti i grandi flussi di denaro. Il recente Ecobonus portato al 110 per cento è una buona operazione per migliorare il patrimonio edilizio esistente invece di fabbricarne di nuovo, ma dovrebbe avere dall’altra parte la garanzia di uno stop all’aggressione dei beni comuni su grande scala, il che sarebbe possibile non agevolando bensì limitando i grandi cantieri e arrivando alla legge contro l’ulteriore consumo di suolo. Produzione di cemento e grandi cantieri sono tra l’altro un’importante fonte di emissioni di CO2 e quindi innetto contrasto con gli obiettivi di riduzione a breve termine imposti dall’Accordo di Parigi sul clima. Perché continuare dunque a sostenerli?
Ovviamente una seria valutazione costi-benefici, sia economica sia ambientale permetterebbe di discernere quali delle poche grandi opere siano effettivamente utili e strategiche: non certo quelle sulla viabilità, aeroporti inclusi, in un mondo che dovrebbe viaggiare meno e utilizzare sempre più il telelavoro e l’economia circolare. Fa eccezione la mobilità urbana, laddove il trasporto pubblico possa influire positivamente su grandi numeri, come una linea di metropolitana in più in certe città. Possono essere strategiche alcune opere legate all’approvvigionamento idrico, come invasi e canali, in vista dicambiamenti climatici che renderanno ancora più preziosa l’acqua, e gli impianti di depurazione. Ma su tutto il resto si può e si deve discutere prima di dare il via libera alle ruspe. Anche perché il suolo e il paesaggio non sono rinnovabili e una volta distrutti nessuno ce li ridarà più indietro. Indigniamoci di fronte a questo saccheggio, ricordando che ogni metro quadrato di suolo perduto – e in Italia ciò avviene al tasso di due metri quadri al secondo – è un danno irreparabile per noi e per le generazioni future. È possibile lavorare e migliorare la società anche senza depredare il territorio, che – ricordiamolo ancora una volta – non è infinito.