La COP30 di Belém: clima, lavoro e giustizia sociale nel cuore della crisi globale

di Laura Tussi - 19/11/2025
La COP30 di Belém può ancora essere un punto di svolta, se saprà riconoscere che il destino del pianeta non si decide solo nelle sale negoziali, ma nella capacità di coniugare innovazione e uguaglianza, protezione della natura e dignità del lavoro, pace e sostenibilità

Con la COP30 di Belém ormai in pieno svolgimento, l’Amazzonia è diventata il centro del mondo. Le delegazioni internazionali stanno discutendo mentre, fuori dai padiglioni ufficiali, popoli indigeni, lavoratori, ricercatori, attivisti e comunità locali ricordano che la crisi climatica non è un tema astratto, ma una realtà già drammatica. La giungla ferita, i fiumi soffocati dalle attività estrattive e la deforestazione che avanza rendono evidente che il pianeta è arrivato a un punto di non ritorno. Ed è proprio qui, nella città simbolo dell’Amazzonia, che si misura la capacità reale dei governi di affrontare la più grande sfida del nostro secolo.

“Se volete coltivare la pace, prendetevi cura del Creato. Esiste un chiaro legame tra la costruzione della pace e la custodia del Creato”, ha chiesto Papa Leone XIV nel suo messaggio ai leader mondiali partecipanti al Vertice sul Clima.

Questa COP, più di altre, è segnata da un contesto internazionale estremamente critico: guerre che ridisegnano confini e alleanze, competizioni energetiche sempre più feroci, crisi economiche diffuse e una trasformazione tecnologica che accelera le disuguaglianze. La transizione ecologica, proprio mentre se ne discute a Belém, rischia di diventare terreno di scontro geopolitico anziché di cooperazione. Eppure, mai come oggi risulta evidente che l’abbandono dei combustibili fossili e la riconversione industriale non sono solo misure per proteggere l’ambiente: sono scelte che riguardano la pace, la giustizia sociale e l’equilibrio globale.

In questo scenario, il mondo del lavoro porta alla COP30 una posizione chiara: la transizione deve essere giusta, programmata, partecipata. Non può diventare un processo che divide i Paesi ricchi da quelli poveri, né che pesa sui lavoratori e sulle comunità locali. Le rappresentanze sindacali e numerose realtà sociali insistono sull’urgenza di un metodo capace di tenere insieme obiettivi climatici e diritti: investimenti pubblici e privati, innovazione tecnologica trasparente, politiche industriali capaci di accompagnare davvero i settori produttivi più fragili e programmi di formazione che permettano ai lavoratori di non essere travolti dal cambiamento.

Dentro la COP30, si discute molto di energia e di reti rinnovabili. Ma la vera posta in gioco — e lo si avverte nei corridoi come nelle conferenze stampa — è geopolitica: chi controllerà le nuove catene del valore, chi finanzierà la riconversione nel Sud del mondo, chi deciderà la distribuzione dei fondi climatici rimasti bloccati per anni. Le comunità amazzoniche stanno ricordando ai negoziatori che non esiste neutralità climatica senza giustizia storica, senza il riconoscimento del debito ecologico accumulato dal Nord globale, senza un sostegno concreto ai Paesi che subiscono gli effetti più gravi dei cambiamenti climatici nonostante siano i meno responsabili.

Belém, oggi, non è solo la sede di una conferenza: è un laboratorio politico in cui si vede se la transizione è davvero possibile. Nelle strade, nei forum paralleli, nei dibattiti informali, emerge una verità che i negoziati ufficiali spesso tendono a eludere: non ci sarà futuro sostenibile senza la partecipazione attiva dei lavoratori, dei popoli indigeni, delle donne, dei giovani, di tutti coloro che vivono la crisi climatica sulla propria pelle.

Il messaggio che arriva dall’Amazzonia, mentre le delegazioni discutono e i documenti circolano freneticamente, è limpido: il clima si difende con i diritti e non contro di essi. La giustizia ambientale non può essere separata da quella sociale. La conversione ecologica è una scelta di civiltà, non un capitolo tecnico da delegare agli esperti.

La COP30 di Belém può ancora essere un punto di svolta, se saprà riconoscere che il destino del pianeta non si decide solo nelle sale negoziali, ma nella capacità di coniugare innovazione e uguaglianza, protezione della natura e dignità del lavoro, pace e sostenibilità. È questa la sfida che l’Amazzonia sta lanciando al mondo, proprio mentre la conferenza è in corso e gli occhi del pianeta sono puntati su Belém.

Laura Tussi

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