Se una cosa ci insegna la crisi climatica e ambientale è la necessità di abbandonare per sempre l’obiettivo della crescita economica. Ma come? Il contrario della crescita non è la decrescita, che è un effetto collaterale (in gran parte benefico), ma la cura. La crescita è un processo quantitativo – è l’aumento del Pil; di tutti i Pil – e non bada a che cosa, a quali merci – beni o servizi – la sostengono. Basta che il valore complessivo delle merci vendute ogni anno superi quello dell’anno precedente. Quanto più, tanto meglio.
La crescita ha un’anima; si chiama accumulazione del capitale: produrre di più per vendere di più e realizzare un profitto (differenza tra costi e ricavi) da investire per poter produrre, vendere e guadagnare ogni volta di più. Il profitto vero è quello reinvestito, anche se una sua quota finisce invece in consumi di lusso di chi lo incassa; consumi che comunque concorrono anch’essi, e sempre di più, a sostenere le vendite di chi li produce e, quindi, altri profitti. L’impresa capitalistica non può che funzionare così. Ogni impresa che non realizza profitti da impiegare per espandersi è destinata a soccombere, o a essere divorata da un’altra impresa che invece li realizza. Così funziona il mondo da almeno cinque secoli; con un salto decisivo da quando la meccanizzazione resa possibile dall’utilizzo dei combustibili fossili (carbone, petrolio, metano) ha permesso di moltiplicare l’aggressione alle risorse del mondo fino a renderle sempre più scarse, o sempre meno rinnovabili, e a produrre sempre più scarti e rifiuti. È la regola dell’economia lineare. Ma una crescita infinita basata su questa spirale è impossibile: siamo arrivati a sfondare i limiti della capacità di carico del nostro pianeta e delle sue principali componenti: atmosfera, suolo, acque.
La cura, invece, è attenzione per ogni singola componente della Terra, della sua biosfera e della sua ecosfera, in modo che il loro utilizzo, o il modo in cui ci rapportiamo con esse, non ne comprometta la capacità di rigenerarsi. È un atteggiamento che riguarda tanto gli umani che il resto del vivente: animali e piante, funghi, batteri, ecc.; evitando di creare situazioni che facilitino l’espansione di qualche specie a spese della sopravvivenza di altre. Questo riguarda ovviamente anche l’equilibrio tra i miliardi di esseri microscopici che svolgono una loro funzione all’interno degli ambienti in cui l’evoluzione naturale li ha confinati e la possibilità che l’incuria apra le porte al loro sconfinamento. L’attuale pandemia non è che un effetto collaterale di questa “disattenzione”.
Il salto che ci viene imposto da uno sviluppo – che altro non è che crescita, spacciata per processo vantaggioso per tutti – giunto al capolinea di una imminente catastrofe planetaria come quella che stiamo attraversando è l’abbandono del paradigma della crescita a favore di quello della cura. Per prendersi cura della Terra occorre che ciascuno si prenda cura del territorio in cui vive, dell’impresa in cui lavora, dell’ambiente in cui opera, in forme che, adattandole alle condizioni specifiche di ogni contesto, possano essere replicate ovunque: ovviamente condividendo progetti, sforzi e lotte con chi ci sta accanto, sia fisicamente, sia per condizione sociale, sia perché partecipa di una stessa rete di relazioni. Ciò comporta l’appartenenza di ciascuno di noi a molte comunità – aggregazioni di interessi, di progetti, di modi di sentire – diverse; il che evita chiusure e ripiegamenti su se stessi. Ma quelle comunità occorre in gran parte costituirle partendo da zero, radicandoci in ogni territorio in un processo di “de-globalizzazione” opposto a quello che ha consegnato la vita di miliardi di uomini a un pugno di persone (l’1 per cento? Molti meno!) che controllano la finanza mondiale. Senza rinunciare ai vantaggi che la globalizzazione ha reso possibili: la circolazione dell’informazione, della cultura, della ricerca scientifica. Poi, in forme meno drammatiche di quelle che caratterizzano le odierne migrazioni, e meno superficiali di quelle del turismo, la libera circolazione delle persone ovunque vogliano andare. Ma anche una circolazione più sobria di materiali e merci che non si possono produrre localmente e che sono essenziali a una vita decente. Questo programma chiede di rendere ciascun territorio più autonomo in campo energetico, alimentare e produttivo.
La promozione di comunità territoriali il più possibile autonome, anche se collegate in rete con molte altre, è l’unico modo per lavorare all’adattamento alle condizioni difficili del domani. Per questo occorre valorizzare tutte le risorse locali materiali, ma soprattutto quelle professionali, intellettuali e spirituali – spesso nascoste o mai messe all’opera – di coloro che abitano in ogni territorio. Radicarsi non significa isolarsi, ma la globalizzazione, quella che ha portato tante produzioni e molto lavoro in altri paesi, alla ricerca di salari più bassi, di diritti umani ancora più ridotti, di difese ambientali inesistenti, quella deve invertire.