Molti Paesi del sud del mondo sono costretti dalla trappola del debito a non abbandonare i progetti sui combustibili fossili. E’ quanto rivela lo studio “The Debt Fossil Fuel Trap” (https://debtjustice.org.uk/wp-content/uploads/2023/08/Debt-Fossil-Fuel-Trap-Report_2023.pdf), realizzato dall’associazione inglese Debt Justice, dal quale emerge come siano in particolare 54 i Paesi il cui debito dal 2011 al 2023 è aumentato del 150% e che, per poterlo ripagare, sono costretti a utilizzare i proventi derivanti dallo sfruttamento delle materie prime fossili.
Il meccanismo, come al solito, è strutturato come una trappola che si autoriproduce. Secondo i dati Ocse, oltre il 70% dei finanziamenti finalizzati al contrasto dei cambiamenti climatici (utilizzo delle energie rinnovabili) sono erogati sotto forma di prestiti, ma quando un Paese si trova in crisi debitoria non può accedervi ed è quindi costretto a ricorrere all’aumento delle trivellazioni per lo sfruttamento di carbone, petrolio e gas.
Ma anche quando un Paese ha ancora la possibilità di accesso al credito, spesso trova sulla sua strada contratti “capestro”, che rispondono a meccanismi legati all’andamento del mercato, con forte penalizzazione dei Paesi che li contraggono.
L’esempio più eclatante riguarda i contratti “Resource Backed Loans” (BRD), che prevedono o il rimborso direttamente in risorse naturali o in denaro commisurato alle potenzialità di reddito ricavato dall’utilizzo delle risorse naturali del Paese. Ma in questi tipi di contratto le potenzialità di reddito vengono sovrastimate e non tengono conto dell’enorme volatilità dei prezzi delle materie prime, dovuta ai meccanismi intrinseci ai mercati finanziari. Risultato finale: il paese indebitato quasi sempre non riesce a far fronte al rimborso del debito e deve ricorrere ad un ulteriore indebitamento, in un circolo vizioso senza fine.
Il rapporto prende in considerazione i casi del Mozambico e del Suriname. In Mozambico, i prestiti effettuati da tre banche inglesi hanno imposto nel 2013 interessi raddoppiati dopo la scoperta nel 2010 di nuove riserve di gas naturale, sulla base della proiezione di entrate che non si sono poi realizzate, essendoci stato nel triennio 2014-2016 un crollo del prezzo del petrolio e del gas. Analoga situazione in Suriname, che nel 2020 è arrivato a sottoscrivere un accordo con i creditori che regala agli stessi il 30% delle sue entrate petrolifere fino al 2050.
Naturalmente, il meccanismo è ancora più perverso, perché banche e imprese petrolifere non sono solo due settori multinazionali all’apice della ricchezza mondiale, ma sono intimamente legate da intrecci societari fra loro, che, come dimostra un rapporto del Transnational Insitute (https://www.tni.org/en/publication/state-of-power-2013), lega indissolubilmente da una parte Deutsche Bank, BNP Paribas, Royal Bank of Scotland, JP Morgan Chase, Bank of America e Citigroup; dall’altra Royal Dutch Sell, Exxon Mobil, British Petroleum, Chevron, Total, Eni e Lukoil. In finta competizione sui mercati, in stretta alleanza contro il pianeta.
Risulta evidente da quanto sopra come nessuna lotta per la giustizia climatica possa portare ad alcun risultato se non si intreccia con le battaglie per l’annullamento del debito, per la definanziarizzazione della natura e per la riappropriazione sociale dei beni comuni e della democrazia. Una convergenza non più rinviabile.
Immagine: “The Debt Fossil Fuel Trap” (https://debtjustice.org.uk/wp-content/uploads/2023/08/Debt-Fossil-Fuel-Trap-Report_2023.pdf)