Quando sentiamo dire dai nostri ministri, per di più da uno addetto alla transizione ecologica, che questa finirà in “un bagno di sangue”, la prima cosa da chiedersi – che lui non si chiede – è che cosa succederà invece se non la si porta a termine nel tempo più breve possibile. Cominciamo ad averne qualche assaggio già ora: oltre al virus – indubbio portato di un ambiente sconvolto dall’intervento umano – incendi di intere regioni e foreste, uragani, alluvioni e siccità sempre più frequenti; desertificazione e sterilità dei suoli; crisi idriche; scomparsa sempre più rapida di ghiacciai e calotte polari con conseguente aumento del livello dei mari che non si può più fermare; riduzione insostenibile della biodiversità e con essa anche dei rendimenti agricoli (pensiamo all’eccidio delle api). E poi, visto che il ministro ha gli occhi puntati solo sull’industria, rottura delle catene di approvvigionamento (per esempio, di microchip che bloccano l’industria dell’auto, degli elettrodomestici e dell’elettronica in tutto il mondo), crisi dei mercati di sbocco, aumento delle materie prime, competizione selvaggia per quelle rare, indispensabili alla transizione all’elettrico.
Ora moltiplichiamo per tre, cinque, dieci quello che abbiamo solo cominciato a vedere e abbiamo un quadro di quello che aspetta la next generation – i nostri figli e nipoti – se lasciamo in mano a gente come Roberto Cingolani la transizione – anzi, conversione – ecologica di cui dovremmo farci carico tutti. Quel ministro ha anche proposto di esentare dalla transizione all’elettrico le auto di lusso – quelle prodotte nelle motorvalley a lui così cara – perché, se perdono potenza, i ricchi non le comprano più. Più ancora che legato ai “poteri forti”, come Eni ed Enel, a cui ha delegato il compito di incassare e usare come vogliono i denari del recovery fund, Cingolani esprime l’idea che la transizione ecologica non deve toccare nessuno dei privilegi – neppure i più banali come, le automobili da corsa; figurarsi gli yacht – di cui godono i ricchi. Il “bagno di sangue” spetta solo ai poveri.
Oltre a uno sforzo di immaginazione collettiva per rappresentarci lo stato del mondo di qui a qualche anno, o a pochi decenni, dobbiamo dunque fare uno sforzo analogo anche per rappresentarci obiettivi, forme e percorsi di una vera conversione ecologica. Non ci aiutano in questo le istanze dell’Unione europea o quelle dell’UNFCCC delineate a Parigi, che a Glasgow non sembrano destinate a molti passi avanti. Non solo perché l’obiettivo di +1,5°C è ormai dietro le spalle e i +2°C sono sempre più problematici, ma perché l’immagine del futuro che sottende quei documenti è insensata: dietro l’ossimoro dello sviluppo sostenibile si prospettano stili di vita esenti da sostanziali cambiamenti. La “cartina al tornasole” di questi approcci è l’automobile. Si punta alla sua elettrificazione pur sapendo che mancheranno le materie prime per portarla avanti; che su di esse si scatenerà una competizione senza quartiere; che comunque, se usate per l’auto sottrarranno risorse urgenti a impianti ben più importanti; e soprattutto che l’uso e il possesso di un’auto privata (una ciascuno o una per famiglia) continuerebbe a riguardare una ristretta gamma di paesi (ancorché allargata alle classi medie di Cina e India) mentre il resto degli esseri umani dovrebbe continuare ad andare a piedi, perché su questa Terra non c’è posto né per cinque miliardi di auto; né, in fin dei conti, per molti di loro… Ma soprattutto si legifera come se a farsi carico della transizione debbano essere solo i governi e ministri come Cingolani (ogni paese ha il suo) e non una mobilitazione che parta dai lavoratori – soprattutto delle aziende in crisi – e dai territori, mettendo nelle mani di chi ci vive e lavora, e per questo li conosce benissimo, mezzi e strumenti per imporre ai governi la strada da percorrere.
Per ora bisogna cominciare a dire alcune cose di cui si parla poco. Che la conversione non può essere fatta di progetti concepiti e promossi azienda per azienda e gestiti solo dalle rispettive maestranze, ma deve coinvolgere per lo meno un’intera filiera, dalle forniture agli sbocchi, riportandone nei territori la maggior parte possibile. Che il processo non può essere il frutto di elucubrazioni personali, né tanto meno ministeriali, ma va messo a punto in forme collettive: per esempio convocando delle conferenze di produzione che coinvolgano, insieme ai lavoratori delle aziende interessate, tutto il loro territorio, le sue associazioni, le sue risorse sia umane che “naturali”, soprattutto quelle non valorizzate. Che tutto va concepito in una prospettiva ineludibile di sobrietà, di equità e di riconciliazione con la vita vegetale e animale rimasta. E che un processo del genere non può che svilupparsi “a macchia di leopardo”; andando avanti, con conflitti sempre più ampi, là dove le forze attive che lo promuovono sono più organizzate, per fare poi da battistrada a tutte le altre: sia a livello regionale che nazionale, continentale e planetario. Se questo si verificherà – e “non c’è alternativa” – i governi dovranno adeguarsi. L’Intendance suivra.
Nell'immagine La fornace di Pretare, frazione di Arquata del Tronto (AP), sullo sfondo il monte Vettore: Un balcone naturale sui monti della Laga. PrenderSi cura dell’Appennino resta una priorità per qualsiasi percorso di conversione ecologica.
Foto di Antonio Citti