Ieri, nel giorno conclusivo della settimana di mobilitazione contro la crisi climatica e ambientale, quasi due milioni di studenti sono scesi in piazza a protestare in diversi paesi del mondo (e in Italia più che in tutti gli altri).
Portando così a quasi sei milioni (quattro volte quelli dello scorso 15 marzo; ma a questo punto i numeri contano poco: al prossimo global strike, a novembre, saranno ancora di più) le persone che hanno risposto alla chiamata allo sciopero di Greta Thunberg.
Non è che l’inizio: da oggi non solo le piazze, ma anche e soprattutto le redini di ogni discussione sensata, la ragione, la politica (quella vera, che decide della vita di tutti) si sono trasferite nelle loro mani, lasciando politici di professione, impresa e finanza, mondo del lavoro (e soprattutto le sue rappresentanze) e quello accademico (con l’eccezione dei climatologi e di pochi altri) a girare a vuoto intorno ai loro totem: la «crescita», le Grandi opere, i decimi di punto di Pil e di deficit, ecc. «La nostra casa va a fuoco», gridano gli studenti. E se l’establishment non se ne è accorto, per ignoranza, perché troppo preso dai suoi affari, per paura di dover cambiar troppo «l’ordine delle cose», la paura del disastro, che Greta non è ancora riuscita a instillargli con i suoi interventi, comincerà ora a provarlo nei confronti di quei ragazzi e quelle ragazze che scendono in piazza contro di loro, cominciando a tagliare sotto i piedi l’erba del business as usual. Ci metteranno un po’, quei signori, a capire che il loro mondo è finito – che sta precipitando nel caos – e che per salvare la specie umana, cioè tutti loro insieme ai loro figli e nipoti, occorre metter mano a una svolta radicale: che loro non sanno nemmeno concepire e meno che mai progettare e realizzare: perché si sono cullati – tutti, maggioranze e opposizioni – nell’illusione di un eterno presente che la crisi climatica e ambientale ha dissolto per sempre.
Ma è ora di smettere di svalutare le nuove generazioni accusandole di consumismo, di aver perso il senso del limite e della «legge del padre»; magari perché i loro padri sono «evaporati».
Meno male, c’è da dire, che sono evaporati: sono stati loro a mettere in mano ai loro figli merendine, abiti firmati, smartfone e altri gadget. E adesso non capiscono perché si muovano così in tanti per tutt’altro. È una fiammata che si spegnerà da sola, dicono alcuni, ma non è così: ora sappiamo che il movimento continuerà a crescere.
E che essuno dei partiti, dei sindacati o delle associazioni dei loro “padri” riescirà più a portarne in piazza tanta gente se non unendosi a loro. E che nessuno ha collegamenti internazionali così solidi.
Adesso i più accorti tra i membri della “classe dirigente” si metteranno a scuola dai giovani di Fridays for future e degli scienziati con a cui hanno dato ascolto e con cui stanno tessendo rapporti stretti, mentre loro, i ”padri”, li hanno ignorati.
Altri si aggrapperanno al proprio ruolo cercando di mandare avanti «la macchina» finché non dovranno prendere atto del fatto che non li ascolta più nessuno.
Ma i piú tra di loro rischiano di andare ad aggregarsi, magari sotto spoglie diverse, al nucleo duro delle destre negazioniste, che hanno idee chiare su come affrontare l’emergenza climatica che pure negano: respingendo con la guerra i profughi ambientali che la crisi è destinata a moltiplicare; reprimendo con decreti liberticidi le rivolte contro la miseria e i disagi che la crisi ambientale e la stagnazione economica non mancherà di aggravare; e mandando avanti lo sfruttamento dei fossili fino all’ultima goccia di petrolio; perché dopo di loro ci sarà«il diluvio».
Possiamo imboccare un’altra strada; ma occorre prendere, tutti, la situazione sul serio, cominciando col dire la verità. Non la conosce quasi nessuno; tutti sanno, ormai, che un grande cambiamento climatico è in corso, ma quasi nessuno ha una percezione del disastro, per noi e i nostri figli, a cui ci sta trascinando. E pochi hanno la percezione del poco tempo che rimane a disposizione per invertire rotta.
Per questo si continua a scavare tunnel, posizionare gasdotti, costruire aeroporti e centri commerciali che forse nessuno potrà utilizzare (o a indire Olimpiadi senza più neve, progettare stadi senza più campionati, cementificare spazi senza più alberi) invece di destinar tutte le risorse, fisiche, finanziarie e intellettuali, a prevenire un disastro altrimenti certo. È ora che tutti costoro lascino un po’ di spazio a chi si è reso conto che davvero «la nostra casa è in fiamme».