La cabina della funivia schiantatasi sul Mottarone – la montagna che sovrasta il lago Maggiore e conserva la memoria di un’intensa lotta partigiana nel Verbano-Cusio-Ossola– è una metafora di un paese fragile che si sbriciola, non regge ai terremoti, alle inondazioni, alla speculazione che si mangia il territorio, al cemento che interra i fiumi per regalare altra terra vitale alla speculazione. Un paese che ha un bisogno disperato di manutenzione e ora avrebbe anche i mezzi per realizzarla. Per impedire che altri ponti sulle strade e le autostrade crollino, o altri cavi di funivie si spezzino trascinando nel baratro persone alla ricerca della libertà, fuori dalla clausura del coronavirus. 191 miliardi del recovery plan più altre decine di miliardi messi in campo dal governo rappresenterebbero un’occasione straordinaria per costruire un nuovo, più robusto paese; per mettere sicurezza e prevenzione in cima a ogni progetto, per revisionare un sistema idrico che fa acqua.
E invece, anche sotto la guida del Supermario Draghi, si lavora per far tornare tutto come prima. Si resuscita il faraonico progetto del ponte di Messina, si sogna un ritorno al nucleare come “energia rinnovabile”. E il ministro della “transizione ecologica” Cingolani riaccende i motori delle trivelle per l’estrazione di gas e petrolio nel mare Adriatico, momentaneamente spenti da una mobilitazione popolare. E ancora, si vuole smantellare il sistema che regola il meccanismo delle gare e degli appalti: nel decreto semplificazioni il governo ha annunciato la proroga di 5 anni della deroga al codice appalti, introdotta dopo il crollo del ponte Morandi di Genova.
Bisogna ricostruire in fretta, è la pressione della tecnocrazia governante e di tanta politica, eliminando controlli, protocolli, ogni argine allo strapotere delle mafie in barba alla sicurezza e dignità di chi lavora alle piccole e grandi opere, in un paese in cui di anno in anno aumentano i morti e gli infortuni sul lavoro, in fabbrica, nei cantieri, in campagna, negli ospedali. E’ la stessa fretta con cui si vuole archiviare per decreto la pandemia gettando al macero prevenzione, mascherine e ogni approccio responsabile ai virus presenti e futuri.
A Salvini e ai suoi soci delle variegate destre non basta la proroga del codice appalti, ne chiedono la cancellazione tout court verso la totale liberalizzazione. Renzi si accoda, il Pd frena educatamente. Solo il segretario Cgil Maurizio Landini alza la voce e minaccia lo sciopero generale, ipotesi che non entusiasma Cisl e Uil. Draghi prosegue sulla sua strada, e al segretario Pd Letta che chiede l’introduzione di una tassa sulle eredità superiori ai cinque milioni per garantire un bonus di diecimila euro ai diciottenni, risponde che non è il momento di prendere soldi ai cittadini ma di darli. La proposta di Letta è “il minimo sindacale”, come dice il filosofo Cacciari, un pannicello caldo, secondo Bersani, che rinvia ancora la questione più importante: una vera riforma fiscale progressiva. Ma Draghi rifiuta anche il pannicello caldo, la bandierina alzata da Letta, perché deve mediare con l’altra bandierina alzata dal Salvini di lotta e governo, la flat tax. O semplicemente, Draghi difende la rendita per non far “piangere i ricchi”.
In questo contesto mefitico l’Italia è entrata in una doppia campagna elettorale. In ottobre si voterà nelle città principali, da Roma a Milano, da Bologna a Torino a Napoli, e in Calabria. Centrosinistra e M5S hanno rinviato a un ipotetico domani un accordo per fermare le orde fascio-leghiste, con poche lodevoli eccezioni. Il Pd è tenuto ancora sotto ricatto da Renzi e da Calenda, mentre a sinistra del Pd c’è il vuoto. Non favorirà certo una ripresa di credibilità la foto di Letta che alza la bandiera israeliana in una manifestazione antipalestinese.
A destra, in una destra che i sondaggi danno al 50%, la partita per l’egemonia e gran parte della politica italiana si giocano tra un Salvini calante e una Meloni crescente che incassa i benefici della sua collocazione all’opposizione del governo di “unità nazionale”. Dall’esito del voto dipenderanno il futuro dell’esecutivo e, al tempo stesso, il secondo appuntamento elettorale: l’elezione del nuovo presidente della Repubblica. Mattarella si è detto indisponibile a un secondo mandato, e l’ipotesi di Draghi al Quirinale comporterebbe inevitabilmente la fine del “governo dei migliori” che senza l’uomo della provvidenza finirebbe in mare come il cimitero di Camogli e, di conseguenza, stessa fine farebbero i finanziamenti europei. Si preannuncia un’estate incandescente, sperando che almeno la pandemia venga tenuta sotto controllo.