“Trasformerà l’Italia”, dice del Pnrr Enrico Giovannini, ministro delle Infrastrutture e delle mobilità sostenibili (dicastero dal curioso nome demagogico: che spinge a chiedersi chi si occupa delle infrastrutture e della mobilità insostenibili, che sono ancora la massima parte…). Condivido l’affermazione, ma non nell’implicito, positivo, giudizio di valore: perché credo che questa trasformazione consisterà in una immane colata di cemento. Tutto era evidente sin dalla nascita del governo Draghi, con la sparizione del Ministero dell’Ambiente (fagocitato dall’elefantiaco quanto propagandistico Ministero della Transizione Ecologica), e del Ministero per i Beni culturali (tra i quali c’è anche il paesaggio) mutato nel, non meno astratto e propagandistico, Ministero della Cultura. Il messaggio è chiaro: questo governo non vuol tutelare più nulla, vuol far sparire lacci e lacciuoli, regole e protezioni, in un danzante ritorno al “maniliberismo” trionfante che ha massacrato la forma dell’Italia. La prova arriva dalle pagine del Pnrr. I numeri danno conto delle priorità: un piano che nasce da un disastro sanitario stanzia 25,33 miliardi per le infrastrutture contro i 15,63 per la salute! Siamo, insomma, ancora all’idea che il mattone (il cemento) sia l’unico possibile volano economico. E ancora una volta non c’è traccia di quella Unica Grande Opera Utile che sarebbe la messa in sicurezza del territorio: il Piano assegna alle “misure per la gestione del rischio di alluvione e per la riduzione del rischio idrogeologico” solo 2,49 miliardi, un decimo di quanto assegnato al cemento delle nuove infrastrutture. E invece dà 6 miliardi alla “valorizzazione del territorio dei comuni”, etichetta assai ambigua e passibile di tradursi in altro cemento. Il Piano evoca il problema cruciale del “consumo di suolo” solo per regredire dall’unica posizione possibile (il consumo zero, che l’Unione Europea impone di raggiungere nel 2050) a una vaga e parenetica esortazione a “limitarlo”: di fatto, un via libera alle betoniere. L’ideologia è quella del neoliberismo più sfrenato. Il Piano afferma che “è necessaria una profonda semplificazione delle norme in materia di procedimenti in materia ambientale e, in particolare, delle disposizioni concernenti la valutazione di impatto ambientale (Via). Le norme vigenti prevedono procedure di durata troppo lunga e ostacolano la realizzazione di infrastrutture e di altri interventi sul territorio”. La Valutazione di impatto ambientale è sentita come un intralcio allo sviluppo, non come una garanzia per l’ambiente. E invece di assumere personale per farle realizzare più in fretta, si pensa solo ad aggirarle, e nella più classica tradizione italica si ricorre ad una giurisdizione speciale: “Si prevede di sottoporre le opere previste dal Pnrr ad una speciale Via statale che assicuri una velocizzazione dei tempi di conclusione del procedimento, demandando a un’apposita Commissione lo svolgimento delle valutazioni in questione”. E non è difficile immaginare quanto l’ambiente sarà tutelato in questi “tribunali del capitale”! Il Piano invoca a più riprese l’allargamento del “silenzio assenso” che costringa le soprintendenze svuotate di personale a dire “sì” ad ogni scempio paesaggistico, e anzi si vocifera del progetto di istituire una specie di “soprintendenza nazionale unica” posta direttamente sotto il controllo della politica. Sarebbe l’abrogazione definitiva dell’articolo 9 della Costituzione che obbliga la Repubblica a tutelare paesaggio e ambiente: e, d’altra parte, che le costituzioni “socialiste” del meridione d’Europa vadano abbattute è un vecchio pallino delle grandi banche d’affari la cui visione del mondo impregna il vertice di questo esecutivo. Paolo Pileri, ordinario di Pianficazione territoriale e ambientale al Politecnico di Milano ha definito il Piano “obbediente a logiche più industriali e finanziarie che ecologiche”. Greenpeace lo ha valutato assegnando un voto a ciascuna componente del Piano che abbia a che fare con l’ambiente (anche le politiche energetiche): la media è un brillante 3,3 (su 10). Per WWF, Greenpeace, Legambiente, Kyoto Club e Transport & Environment (T&E) il Pnrr è un’occasione sprecata, perché “non riesce a identificare nei settori della decarbonizzazione il volano per la ripresa economica sostenibile e non è incisivo nell’allocazione delle risorse e nelle riforme per innovare i settori pilastro della decarbonizzazione”, e “le risorse classificabili come ‘verdi’ appaiono marginali nella transizione energetica e scollegate da una strategia climatica”. Se si aggiunge la ciliegina del Ponte sullo Stretto, cavallo di battaglia di Berlusconi e Renzi riesumato da Draghi, è evidente che più che Next Generation è una prospettiva da last Generation: il regalo avvelenato di un governo (con l’età media di 54,5 anni, composto per due terzi da maschi, e per tre quarti di ministri del Nord) che pensa in termini di “dopo di me il diluvio”.
Il Piano nazionale di ripresa e resilienza boccia le procedure per la valutazione di impatto ambientale. Il rischio ecologico sarà vagliato da “un’apposita commissione”