- Premessa
Sono passati 60 anni dalla sera del 9 ottobre 1963, quando, alle 22.39, circa 270 milioni di m/c di roccia si staccarono dal Monte Toc e precipitarono alla velocità di 110 km/h nel bacino artificiale sottostante, creato dalla diga del Vajont, provocando un’onda di piena, che superò i 250 m in altezza e che si riversò, in parte sul versante opposto della valle distruggendo tutti gli abitati lungo le sponde del lago nel Comune di Erto e Casso, e in gran parte (30 milioni di m/c di acqua), scavalcando la diga, nella valle del Piave, distruggendo completamente il paese di Longarone e i Comuni limitrofi. Morirono 1910 persone.
Sessanta anni sono passati e, ancora, nelle commemorazioni ufficiali, siamo a costretti a sentire come la causa di tutto questo sia da ricercare in una generica e astratta relazione uomo-natura, nella quale sono l’esistenza stessa e l’attività di un’umanità del tutto indifferenziata a generare impatti negativi sull’ambiente naturale. Corollario di questa narrazione è l’assunto per il quale “siamo tutti sulla stessa barca”, tutte e tutti ugualmente responsabili della situazione, per cui non vi è alcun conflitto sistemico da mettere in campo, bensì una sorta di solidarietà di specie, di fatto contro sé stessa e la sua irriducibile insipienza.
- Un crimine del profitto contro la vita e la natura
La cosiddetta “tragedia del Vajont” fu in realtà un crimine perpetrato consapevolmente. La stessa Cassazione, con sentenza del marzo 1971, lo dichiarò “omicidio colposo plurimo con l’aggravante della prevedibilità”, condannando lo Stato Italiano, Enel e Montedison. Quella diga non avrebbe mai dovuto essere costruita. Lo dicevano non solo le leggende popolari locali, secondo le quali “la cittadina di Erto era destinata ad avere un periodo di prosperità per poi sparire negli abissi di un lago”, ma studi geologici commissionati dalla stessa società privata di costruzione della diga – Sade- che stabilirono la presenza di una paleofrana sul Monte Toc.
Incurante di quanto emerso dagli studi da essa stessa prodotti, la Sade, società privata che costruì la diga del Vajoint con abbondanti finanziamenti pubblici, era solo preoccupata di portare a termine il lavoro per poter far rientrare diga e impianti idroelettrici nella nazionalizzazione dell’energia elettrica, stabilita con legge del 1962 dal Governo Fanfani: se l’impianto fosse stato terminato in tempo e reso funzionante, avrebbe potuto essere rivenduto allo Stato, con enorme -e ancora oggi secretato- profitto.
Fu questa la ragione per la quale tutti gli allarmi furono inascoltati o nascosti, dalla frana di 800.000 m/c di roccia caduta dal Monte Toc tre anni prima alle inchieste giornalistiche portate avanti con grande tenacia e determinazione dalla giornalista de “L’Unità”, Tina Merlin, che, avendo due difetti inaccettabili -essere comunista e dire la verità- venne sconfessata platealmente da tutti i mezzi d’informazione mainstream, con Indro Montanelli in prima fila.
- Il “miracolo economico del nord est”
Se gli accadimenti del crimine del Vajont, anche grazie all’infaticabile lavoro di artisti come Marco Paolini, sono oggi conosciuti ai più, ancora sconosciuta sembra quella che la giornalista Laura Vastano ha descritto nel suo libro “L’onda lunga del Vajont”, ovvero la cosiddetta ricostruzione lanciata con l’idea dell’”Italia che si rialza dopo la tragedia”.
Perché ciò che è successo dopo il disastro del Vajont è paradossalmente peggio di quanto occorso con la frana del 9 ottobre. Aldilà dei risarcimenti irrisori per chi aveva perso letteralmente tutto, dalla casa al lavoro, dagli affetti alla stessa dimensione esistenziale (spaesati nel senso letterale del termine), l’accento va posto sulla legge n. 357/1964 (cosiddetta “legge Vajont”).
Il principio del testo di legge non era di per sé sbagliato: sanciva infatti che ogni cittadino dei comuni distrutti, che, al tempo della tragedia, possedeva una licenza commerciale, artigianale o industriale, aveva diritto a un contributo del 20% a fondo perduto per riavviare l’attività, a un mutuo dell’80% a tasso agevolato (non superiore al 3%, mentre i tassi d’interesse all’epoca superavano il 15%) e all’esenzione dal pagamento di tutte le tasse per dieci anni.
Peccato che la medesima legge prevedeva la possibilità, per chi non avesse potuto o voluto riavviare la propria attività, di vendere la propria licenza ad altri, i quali avrebbero potuto beneficiare degli stessi diritti. Inoltre, il comprensorio all’interno del quale questi nuovi acquirenti potevano avviare l’attività di cui avevano comprato la licenza non riguardava più solo le province di Udine e Belluno, i cui Comuni erano stati direttamente investiti dalla tragedia, bensì l’intero Triveneto, coinvolgendo anche le province di Trento, Bolzano, Gorizia, Trieste, Vicenza, Treviso e Venezia.
Fu così che frotte di imprenditori avvoltoi planarono sulla valle, accompagnate da stuoli di avvocati, commercialisti e mediatori, alla conquista di licenze che vennero acquistate in forma seriale e per pochi soldi da abitanti spossessati di tutto e ignari dei diritti che potevano vantare su quelle licenze.
È nato da qui e non da mitiche narrazioni sulla laboriosità delle genti venete il cosiddetto “miracolo economico del nord est”, di cui imprenditori e leghisti alzano la bandiera per annunciare illusorie secessioni e ben più concrete autonomie differenziate.