La "deforma" della Costituzione di Matteo Renzi e dei suoi complici
altolocati corona il sogno della peggiore destra democristiana della
nostra storia. Twittare Avanti e marciare all'indietro, questo è il
passo del renzismo. Il manifesto, 24 aprile 2016
L’attacco alla Costituzione partì già quasi
all’indomani del suo varo. Il 2 agosto 1952 Guido Gonella, all’epoca
segretario politico della Democrazia cristiana, chiedeva – in un
pubblico comizio – di riformare la Costituzione italiana, entrata in
vigore appena tre anni e mezzo prima, il 1 gennaio 1948. Si trattava di
un discorso tenuto a Canazei, in Trentino, e la richiesta di riforma
mirava – come egli si espresse – a «rafforzare l’autorità dello Stato»,
ad eliminare cioè quelle «disfunzioni della vita dello Stato che possono
avere la loro radice nella stessa Costituzione». E concludeva,
sprezzante: «la Costituzione non è il Corano!» (Il nuovo Corriere,
Firenze, 3 agosto 1952).
Nello stesso intervento, il segretario della Dc, richiamandosi più volte
a De Gasperi, chiedeva di modificare la legge elettorale, che – essendo
proporzionale – dava all’opposizione (Pci e Psi) una notevole
rappresentanza parlamentare. L’idea lanciata allora, in piena estate,
era di costituire dei «collegi plurinominali», onde favorire i partiti
che si presentassero alle elezioni politiche «apparentati» (Dc e
alleati).
Come si vede, sin da allora l’attacco alla Costituzione e alla legge
elettorale proporzionale (la sola che rispetti l’articolo 48 della
Costituzione, che sancisce il «voto uguale») andavano di pari passo.
Pochi mesi dopo, alla ripresa dell’attività parlamentare fu posto in
essere il progetto di legge elettorale (scritta da Scelba e
dall’ex-fascista Tesauro, rettore a Napoli e ormai parlamentare
democristiano) che è passata alla storia come «legge truffa». Imposta,
contro l’ostruzionismo parlamentare, da un colpo di mano del presidente
del senato Meuccio Ruini, quella legge fu bocciata dagli elettori, il
cui voto (il 7 giugno 1953) non fece scattare il cospicuo «premio di
maggioranza» previsto per i partiti «apparentati».
L’istanza di cambiare la Costituzione al fine di dare più potere
all’esecutivo divenne poi, per molto tempo, la parola d’ordine della
destra, interna ed esterna alla Dc, spalleggiata dal movimento per la
«Nuova Repubblica» guidato da Randolfo Pacciardi (repubblicano poi
espulso da Pri), postosi in pericolosa vicinanza – nonostante il suo
passato antifascista – con i vari movimenti neofascisti, che una «nuova
Repubblica» appunto domandavano.
La sconfitta della «legge truffa» alle elezioni del 1953 mise per molto
tempo fuori gioco le spinte governative in direzione delle due riforme
care alla destra: cambiare la Costituzione e cambiare in senso
maggioritario la legge elettorale proporzionale. Che infatti resse per
altri 40 anni. Quando, all’inizio degli anni Novanta, la sinistra,
ansiosa di cancellare il proprio passato, capeggiò il movimento – ormai
agevolmente vittorioso – volto ad instaurare una legge elettorale
maggioritaria, il colpo principale alla Costituzione era ormai sferrato.
Ammoniva allora, inascoltato, Raniero La Valle che cambiare legge
elettorale abrogando il principio proporzionale significava già di per
sé cambiare la Costituzione. (Basti pensare, del resto, che, con una
rappresentanza parlamentare truccata grazie alle leggi maggioritarie,
gli articoli della Costituzione che prevedono una maggioranza
qualificata per decisioni cruciali perdono significato). Ma la speranza
della nuova leadership di sinistra (affossatasi più tardi nella scelta
suicida di assumere la generica veste di partito democratico) era di
vincere le elezioni al tavolo da gioco. Oggi è il peggior governo che
l’ex-sinistra sia stata capace di esprimere a varare, a tappe forzate e a
colpi di voti di fiducia, entrambe le riforme: quella della legge
elettorale, finalmente resa conforme ad un tavolo da poker, e quella
della Costituzione.
Ma perché, e in che cosa, la Costituzione varata alla fine del 1947 dà
fastidio? Si sa che la destra non l’ha mai deglutita, non solo per
principi fondamentali (e in particolare per l’articolo 3) ma anche, e
non meno, per quanto essa sancisce sulla prevalenza dell’«utilità
sociale» rispetto al diritto di proprietà (agli articoli 41 e 42). Più
spiccio di altri, Berlusconi parlava – al tempo suo – della nostra
Costituzione come di tipo «sovietico»; il 19 agosto 2010 il Corriere
della sera pubblicò un inedito dell’appena scomparso Cossiga in cui il
presidente-gladiatore definiva la nostra costituzione come «la nostra
Yalta». E sullo stesso giornale il 12 agosto 2003 il solerte Ostellino
aveva richiesto la riforma dell’articolo 1 a causa dell’intollerabile – a
suo avviso – definizione della Repubblica come «fondata sul lavoro». E
dieci anni dopo (23 ottobre 2013) tornava alla carica (ma rimbeccato)
chiedendo ancora una volta la modifica del nostro ordinamento: questa
volta argomentando «che nella stesura della prima parte della
Costituzione – quella sui diritti – ebbe un grande ruolo Palmiro
Togliatti, l’uomo che avrebbe voluto fare dell’Italia una democrazia
popolare sul modello dell’Urss». Di tali parole non è tanto rimarchevole
l’incultura storico-giuridica quanto commovente è il pathos, sia pure
mal riposto.
Dà fastidio il nesso che la Costituzione, in ogni sua parte, stabilisce
tra libertà e giustizia. Dà fastidio – e lo lamentano a voce spiegata i
cosiddetti «liberali puri» convinti che finalmente sia giunta la volta
buona per il taglio col passato – che la nostra Costituzione sancisca
oltre ai diritti politici i diritti sociali. Vorrebbero che questi
ultimi venissero confinati nella legislazione ordinaria, onde potersene
all’occorrenza sbarazzare a proprio piacimento, come è accaduto
dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.
La coniugazione di libertà e giustizia era già nei principi generali
della Costituzione della prima Repubblica francese (1793): «La libertà
ha la sua regola nella giustizia». Ed è stata poi presente nelle
costituzioni – italiana, francese della IV Repubblica, tedesca – sorte
dopo la fine del predominio fascista sull’Europa: fine sanguinosa, cui i
movimenti di resistenza diedero un contributo che non solo giovò
all’azione degli eserciti (alleati e sovietico) ma che connotò
politicamente quella vittoria. Nel caso del nostro paese, è ben noto che
l’azione politico-militare della Resistenza fu decisiva per impedire
che – secondo l’auspicio ad esempio di Churchill – il dopofascismo si
risolvesse nel mero ripristino dell’Italia prefascista magari serbando
l’istituto monarchico.
La grande sfida fu, allora, di attuare un ordinamento, e preparare una
prassi, che andassero oltre il fascismo: che cioè tenessero nel debito
conto le istanze sociali che il fascismo, pur recependole, aveva però
ingabbiato, d’intesa coi ceti proprietari, nel controllo autoritario
dello Stato di polizia, e sterilizzato con l’addomesticamento dei
sindacati. La sfida che ebbe il fulcro politico-militare
nell’insurrezione dell’aprile ’45 e trovò forma sapiente e durevole
nella Costituzione consisteva dunque – andando oltre il fascismo – nel
coniugare rivoluzione sociale e democrazia politica. Perciò Calamandrei
parlò, plaudendo, di «Costituzione eversiva» (1955), e perciò la vita
contrastata di essa fu regolata dai variabili rapporti di forza della
lunga «guerra fredda» oltre che dalle capacità soggettive dei
protagonisti. C’è un abisso tra Palmiro Togliatti e il clan di Banca
Etruria. Va da sé che l’estinguersi dei «socialismi» con la conseguente
deriva in senso irrazionalistico-religioso delle periferie interne ed
esterne all’Occidente illusoriamente vittorioso hanno travolto il quadro
che s’è qui voluto sommariamente delineare. La carenza di statisti
capaci e la autoflagellazione della fu sinistra non costituiscono certo
il terreno più favorevole alla pur doverosa prosecuzione della lotta.
La Costituzione si difende con il conflitto
Claudio De Fiores
La Cassazione: Si al referendum
Alfiero Grandi