Il taglio del parlamento, purtroppo confermato dal referendum del 20/21 settembre, ha conseguenze sul funzionamento delle istituzioni del nostro paese, prima ancora che siano approvate ulteriore modifiche costituzionali e forse le anticipa.
E' il frutto avvelenato del taglio del parlamento, che è stato archiviato in fretta dopo il voto, mettendo la sordina alle promesse fatte, a partire dalla nuova legge elettorale.
La ragione è politica. Il taglio ha dato un duro colpo al ruolo e al prestigio del parlamento, che erano già in caduta libera per inadeguatezza del suo funzionamento e per l'incapacità di rappresentare le ansie e le speranze delle elettrici e degli elettori, perchè la scelta degli eletti non è in mano ai cittadini ma ai capi dei partiti, che sono decisivi nel meccanismo elettorale che controlla le candidature e decide chi sarà eletto.
Un parlamento con componenti non rappresentativi degli elettori è debole di per sé e il potere è concentrato nelle mani dei pochi decisori e il suo lavoro è scandita dai governi. Governi che usano a dismisura i decreti legge, che dovrebbero essere usati solo per ragioni di necessità ed urgenza e non è così. Governi che si affidano al voto di fiducia su maximendamenti con centinaia di commi per sciogliere con la “forza” le differenze e le contraddizioni nella stessa maggioranza, bloccando il confronto parlamentare, con il risultato che molte decisioni entreranno in vigore con ritardo e forse mai, perchè hanno bisogno di un numero spropositato di decreti attuativi.
Tempi lunghi ed incertezza attuativa sono le conseguenze.
Questa coartazione del parlamento provoca il ribaltamento del rapporto dei ruoli tra parlamento e governo, a favore di quest'ultimo, che da controllato diventa nei fatti il vero dominus dell'attività legislativa.
Inoltre il parlamento non è in grado di essere il rappresentante della pluralità dei punti di vista, delle condizioni sociali e territoriali, perchè per un confronto occorre conoscenza e tempo e la possibilità di modificare i provvedimenti. La società così non ha chi la rappresenta. Di fatto l'èlite dirigente ha un rapporto diretto, senza mediazioni, con l'opinione pubblica. Al di là del rispetto della forma la sostanza le derive più o meno populiste sono all'ordine del giorno.
Un parlamento ridotto ad un ruolo subalterno, come avviene ormai da anni, che subisce le decisioni del governo, non può essere rappresentativo e non aiuta a confrontare e comporre le differenze sociali, politiche, ideali, soprattutto nei momenti difficili, come ad esempio è evidente in questa fase della pandemia, in cui il rischio di deragliamento del ruolo delle istituzioni e della stessa democrazia è evidente.
Sottovalutare le tensioni che si stanno manifestando nella nostra società vuol dire non averne capito la profondità e la drammaticità. Si avvertono movimenti di fondo generati anzitutto dalle conseguenze economiche e sociali della pandemia.
Per una parte della società oltre ai rischi per la salute che riguardano tutti ci sono i contraccolpi della pandemia che la precipitino in una condizione sociale di emarginazione, di assenza di lavoro, di povertà, senza prospettive.
Non sempre è chiaro a chi protesta che all'origine dei provvedimenti ci sono pandemia e misure per tutelare la salute. Questa è una difficoltà in più, aggravata da un diverso carico sui settori sociali delle difficoltà conseguenti.
Quando il futuro viene compromesso si aprono drammi personali e sociali. C'è chi pensa di non avere più nulla da perdere e può essere coinvolto in pulsioni che portano a sovvertimenti. In sostanza si apre un serio problema per la democrazia. E' evidente che chi coltiva un disegno eversivo, o criminale, trova in questa situazione di forte disagio uno spazio di manovra che prima non aveva.
Per questo il parlamento deve essere rimesso al centro, pur con i suoi limiti evidenti. La pandemia non agisce su tutti allo stesso modo. Un esempio: le organizzazioni di vendita attraverso il web stanno accrescendo ruolo e utili, all'opposto un bar o un piccolo negozio che subisce il blocco, anche se è indispensabile, sono di fronte al pericolo di non avere lavoro, reddito, futuro.
Non siamo in una fase di passaggio, dopo la quale si tornerà alla normalità, concezione che ha già portato a seri guai dopo il lockdown e a cui dobbiamo la ripresa della pandemia. E' un errore pensare di poter tornare a prima della pandemia, quasi fosse un'enorme parentesi. Qualche esempio, il decentramento produttivo – non solo nel settore sanitario – non potrà più essere quello del passato e in parte non lo è già più, la scuola va ripensata in un diverso rapporto tra uso delle tecnologie informatiche e didattica tradizionale. Fino alla pandemia c'era stata una lenta contaminazione, ora le modifiche sono traumatiche e va costruito un nuovo equilibrio.
Il malessere, una ribellione diffusa, che alcuni settori cercano di strumentalizzare, sono gli effetti delle misure di limitazione e ne vanno comprese le ragioni, non ignorate.
Il governo ha dato segnali sbagliati quando ha messo tra parentesi la fase di marzo/maggio, ipotizzando una ripresa economica che deve tuttora fare i conti con la pandemia e i suoi malefici effetti, con ritardi e lacune nella predisposizione di un piano sanitario e sociale contro un possibile (in parte previsto) ritorno della pandemia.
Anche una parte del mondo scientifico ha avallato l'idea che ormai la pandemia era sotto controllo, indebolendo la credibilità degli allarmi di chi avvertiva che in questo modo si sarebbe andati a sbattere.
Purtroppo il governo dopo il referendum ha rafforzato il rapporto tra esecutivi, tra governo e regioni. Un rapporto diretto tra Governo e Regioni vuol dire mettere in ombra il ruolo del parlamento che invece dovrebbe essere centrale e non costretto a subire le decisioni prese in altre sedi, in un rapporto diretto tra esecutivi. Così il Governo ha affrontato il rapporto con le regioni da posizioni più deboli e si è esposto al rischio di un rimpallo delle responsabilità. Il Presidente Mattarella è intervenuto più volte chiedendo una leale collaborazione tra istituzioni, ma la leale collaborazione ha il presupposto che ogni livello istituzionale svolga fino in fondo il suo ruolo e si rapporti con gli altri lealmente, il contrario dello scaricabarile.
Il Governo è forte e credibile nel rapporto con le regioni e le altre istituzioni con cui si confronta (europee, locali) quando ha alle spalle un forte mandato parlamentare , garantito da una visione complessiva degli interessi in campo per farne una sintesi nazionale. Se al contrario il Governo prima concorda con gli esecutivi delle regioni e solo dopo si rivolge al parlamento si ribalta il rapporto ed è evidente che il punto di vista nazionale è più debole, paradossalmente il coordinamento stesso è più difficile perchè il governo non avrà la forza necessaria per svolgere il suo ruolo nazionale.
Attribuire al rapporto diretto tra esecutivi un ruolo decisionale (governo e regioni) è in realtà l'anticipazione dell'idea che si debba andare verso una sorta di terza camera, trasformando in futuro la conferenza stato/regioni in una terza camera.
Non solo si dimentica di avere tagliato le attuali camere del 36,5%, ma ora si propone la consacrazione della conferenza stato/regioni. Oggi ci sono due camere dimezzate e una enfatizzazione del rapporto tra Governo e regioni, fulcro di una sede di confronto tra esecutivi. Una vera confusione istituzionale. La realtà dei fatti si incarica di dimostrare la precarietà di questo bislacco disegno istituzionale.
Le regioni hanno infatti rapidamente messo in crisi questo disegno e rimesso nelle mani del governo le decisioni, come è accaduto via via che i provvedimenti necessari si sono fatti più severi. Per la maggior parte delle regioni meglio protestare contro le decisioni del governo che assumersi delle responsabilità. Il governo è stato costretto a tornare in parlamento ad illustrare il dpcm in anticipo cercando finalmente una legittimazione dal parlamento.
Il governo ha fatto un grave errore quando ha proposto che l'autonomia regionale differenziata diventi un ddl collegato alla discussione sul bilancio pubblico. La salvaguardia dei diritti fondamentali alla salute dei cittadini e quindi l'esigenza di affermare senza ambiguità che tutti hanno lo stesso diritto alla salute in qualunque area del paese risiedano non consente di avere ulteriori differenziazioni nei sistemi regionali della sanità, siamo al limite del tradimento dello spirito della legge che istituì il sistema sanitario nazionale nel 1978. Non si può andare verso l'autonomia regionale differenziata che finirebbe con il lacerare definitivamente la sanità pubblica nazionale. Procedere verso l'autonomia regionale differenziata di cui si sta discutendo sarebbe un grave errore e la rinuncia ad un ruolo nazionale solidale per la tutela della salute. L'esperienza della pandemia ha dimostrato che non solo sarebbe un errore andare verso l'autonomia regionale differenziata, anzi al contrario andrebbero esercitati con decisione i poteri sostitutivi previsti e semmai inserita una modifica nel titolo V che garantisca un più ampio potere del parlamento e del governo per garantire che il sistema sanitario nazionale pubblico non deragli definitivamente.
Alfiero Grandi