La Repubblica Italiana non prevede un Capo di Governo, ma solo un Presidente del Consiglio dei Ministri.
La nostra pigrizia linguistica e l’avarizia del sistema informativo ci hanno abituati a chiamare Draghi “Capo del Governo”, e così anche Conte e indietro fino a De Gasperi.
Nella storia unitaria italiana c’è stato un solo “Capo del Governo Primo Ministro Segretario di Stato”: Benito Mussolini.
Mussolini assunse questo titolo quando ufficializzò con la legge n. 2263/1925 il passaggio dalla monarchia parlamentare alla dittatura totalitaria.
Il Capo del Governo rispondeva solo al Re e solo dal sovrano poteva essere destituito.
La pigrizia linguistica è molto insidiosa e aiuta ad accettare termini e concetti che si vorrebbe contrastare.
Così, passa il concetto che il problema dell’instabilità nell’amministrare comuni e regioni sia stato risolto con l’elezione diretta del Sindaco e del Presidente di Regione e poco importa che ciò ha zittito in ogni ente locale la "dialettica di ragionati contrasti", per riprendere le parole di Calamandrei.
Con la stessa ricetta da tempo qualcuno ritiene che si possa si risolvere il problema dell’instabilità del governo nazionale, vale a dire adottando l’elezione diretta del presidente del Consiglio.
La proposta di elezione diretta del Presidente del Consiglio non prevede una nuova denominazione per questa carica e nemmeno variazioni nei poteri del Presidente del Consiglio, tuttavia è lecito pensare che in realtà si voglia proprio introdurre la figura del “Capo del Governo”.
Infatti, il Presidente del Consiglio conserverebbe l'attuale denominazione, continuerebbe a essere un primus inter pares, la fiducia continuerebbe è essere data al governo e non al presidente … però è indubbio che cambierebbe qualcosa di sostanziale perché al Presidente eletto sarebbe garantita la maggioranza assoluta del parlamento e l’immodificabilità dell’indirizzo politico del governo del Presidente eletto, limitando i poteri del Presidente della Repubblica tanto nella scelta della persona cui affidare l'incarico di formare il governo, quanto in caso di crisi di governo.
Se la maggioranza si è dissolta, probabilmente è successo che una parte ha lasciato la maggioranza oppure che a fronte di nuovi eventi non ha trovato un accordo su come fronteggiarli.
Quindi, cristallizzare l’indirizzo politico è una pessima soluzione: significa che qualunque cosa succeda il Governo non deve cambiare indirizzo. Così si produce instabilità perché aumenta la probabilità che ogni crisi di governo porti a elezioni anticipate e dall’altro maggior asservimento della maggioranza parlamentare al “capo del governo”.
L’impossibilità di cambi di maggioranza suggerirà più prudenza nel provocare crisi di governo, ma ciò non significa avere più stabilità di governo. Basterebbe introdurre la sfiducia costruttiva per evitare crisi di governo al buio.
La durata della vita del Governo non è in se stessa un valore da tutelare; perché dovrebbe durare 5 anni un governo che non opera bene? Non è un caso che la Costituzione nulla dica sulla durata del Governo, proprio perché deve essere il Parlamento a valutare e decidere sulla vita dell’esecutivo.
L’idea che l’indirizzo politico sia immodificabile è grottesca.
L’elezione diretta del presidente del consiglio non risolve nulla.
Oggi la Meloni, che non è stata eletta direttamente, può cadere se si dissolve la sua maggioranza e lo stesso potrebbe verificarsi in caso di elezione diretta.
Tutto ciò produrrà meno cambi di maggioranza, ma più elezioni anticipate.
Ricordo che il Governo Monti (2011), al di là di ogni valutazione politica, arrivò perché Berlusconi non aveva più la maggioranza parlamentare e la stessa Meloni votò la fiducia a Monti; siamo sicuri che sarebbe stato meglio andare a elezioni anticipate anziché dare vita a un nuovo esecutivo con una maggioranza diversa rispetto a quella uscita dalle urne del 2008? Siamo sicuri che a fine 2011 l’indirizzo politico su cui il Governo Berlusconi IV aveva ottenuto la fiducia fosse ancora perseguibile?
Questa proposta di riforma è un pasticcio illogico, inutile e pericoloso.
“Il Presidente del Consiglio dei ministri dirige la politica generale del Governo e ne è responsabile. Mantiene l’unità di indirizzo politico ed amministrativo, promuovendo e coordinando l’attività dei ministri.”, recita l’art. 95 della Costituzione e così continuerebbe a essere. Però c’è un ma …
La riforma costituzionale tanto cara a Meloni è nota, sempre per la solita pigrizia e avarizia di cui sopra, come “premierato” ma in realtà non ha nulla da spartire con il premierato o il cancellierato, tranne, con il solito provincialismo italiota, specificare “premierato all’italiana”.
Il Premier nel Regno Unito o il Cancelliere nella Repubblica Federale Tedesca è di norma il leader del partito di maggioranza relativa e costui dovrà con le proprie capacità riuscire a formare una maggioranza, che non gli è affatto garantita.
La nostra elezione diretta del Presidente del Consiglio assomiglia molto alla figura del Capo del Governo di mussoliniana memoria, con la differenza che il nostro Presidente della Repubblica non potrebbe disporre gli arresti del Capo del Governo.
Nei fatti il Presidente del Consiglio diventerebbe un dominus assoluto che solo il Parlamento potrebbe far cadere.
Ma che autonomia ha un Parlamento per il 55% composto da persone scelte dal Capo del Governo e dai suoi vice?
Un Parlamento che non può far nascere una nuova maggioranza?
Se questi parlamentari facessero cadere il Governo, quale futuro politico avrebbero?
Chi potrebbe garantire loro un comodo scranno parlamentare in cambio di obbedienza?
Sarebbe una stabilità basata sul ricatto e sulla convenienza personale di pochi accoliti.
Una stabilità ottenuta azzerando la dialettica parlamentare.
Il governo dell’Italia come il governo di un piccolo comune.
La proposta Meloni realizza il Sindaco d’Italia, tanto desiderato da quel centrosinistra che approvò l’Italicum e la riforma costituzionale Boschi-Renzi.
Il vulnus non sta nell’elezione diretta del sindaco o del presidente di regione o del consiglio, sta nel garantire a questa figura monocratica la maggioranza assoluta del Consiglio o del Parlamento.
Al Presidente USA, al Presidente francese, al Premier inglese e al Cancelliere tedesco non è garantita la maggioranza del parlamento. Devono costruirsela con la loro capacità di guida, mediazione, ascolto …
Meloni, invece, assicura al presidente del consiglio la maggioranza assoluta del Parlamento trasformando una maggioranza relativa in maggioranza assoluta.
Un meccanismo che non esiste in alcun paese liberale.
Il sistema liberale si basa sulla separazione dei poteri.
La proposta Meloni fa coincidere potere esecutivo e potere legislativo, controllato e controllore; in sostanza, cancella il parlamento che si riduce a una squadra che gioca, la maggioranza, e l’altra squadra, l’opposizione, che sta in panchina … in attesa delle prossime elezioni.
Questo sistema non si chiama premierato ma DITTATURA DELLA MAGGIORANZA RELATIVA.
Mancherebbe, infatti, in Italia qualsiasi controllo, bilanciamento, contrappeso istituzionale e qualsiasi garanzia sul rispetto dei diritti fondamentali.
Questa maggioranza relativa potrebbe in autonomia eleggere il Presidente della Repubblica, condizionare pesantemente la Corte costituzionale, a cui in ogni caso i cittadini non hanno accesso diretto, zittire le opposizioni attraverso la modifica dei regolamenti parlamentari che sono nelle mani della maggioranza di ciascuna camera.
Un sistema così squilibrato e poco tutelante non esiste in alcun paese di tradizione liberale.
La proposta Meloni adotta per l’elezione del Presidente del Consiglio e della sua maggioranza la formula in uso per l’elezione del Sindaco nei comuni fino a 15.000 abitanti mettendo sullo stesso livello il Sindaco e il Presidente del Consiglio, il Consiglio comunale e il Parlamento.
C’è però un dettaglio che non dovrebbe essere dimenticato.
Il Sindaco, nonostante disponga della maggioranza assoluta del Consiglio comunale, ha poteri molto limitati; agisce all’interno di leggi che altri hanno scritto e su cui altri operano ogni sorta di controllo. Il Sindaco non può introdurre nuove tasse o modificare i diritti dei cittadini.
Il Presidente del Consiglio, al quale è concessa per diritto la maggioranza assoluta del Parlamento, assorbe in sé il potere esecutivo e quello legislativo, con l’illimitato potere di dettare al Parlamento le leggi che vuole, modificare la Costituzione, senza la certezza di un referendum confermativo, nella totale assenza di contrappesi e controlli.
Se poi consideriamo che i Parlamentari non sono eletti, ma nominati dai capi partito, che è al capo partito che i parlamentari devono il seggio parlamentare e dal Capo dipende il futuro del parlamentare stesso ... ci rendiamo conto che il rischio di totale esautoramento del Parlamento è concreto e reale (tanto più che lo stiamo già vivendo con un Parlamento che è totalmente assorbito dai provvedimenti dell'esecutivo).
Il perno della riforma Meloni è quindi la garanzia della maggioranza assoluta del Parlamento e l’immodificabilità dell’indirizzo politico.
La rappresentatività del parlamento è demandata a una legge che potrebbe continuare a negare ai cittadini il diritto di scelta del proprio rappresentante e persino del partito preferito, esattamente come avviene adesso.
In caso di approvazione della riforma costituzionale, avremmo una legge elettorale peggiore di quella attuale perché garantirebbe alla maggiore minoranza la maggioranza assoluta del parlamento, cosa che adesso non è garantita.
E se invece la riforma Meloni fosse bocciata?
Potremmo tornare a votare col Rosatellum – che produce un Parlamento di nominati – o la maggioranza potrebbe modificare il Rosatellum per aumentare la quota maggioritaria e così puntare ad avere i numeri necessari per modificare la Costituzione in totale autonomia.
Si consideri che con appena 3/8 dei seggi assegnati con metodo maggioritario, il CDX ha avuto un premio del 40%: con il 43,79 dei voti ha ottenuto il 59% dei seggi. Cosa succederebbe se i seggi uninominali fossero i 5/8?
Ecco che il CDX potrebbe salire fino al 70% dei seggi. Già questo era il timore a settembre 2022, sulla base dei sondaggi più negativi per il M5S, che invece al Sud ha mantenuto buone posizioni.
Evidente, dunque, che per respingere con successo la riforma Meloni è dalla legge elettorale che dobbiamo partire.
Bisogna modificare il Rosatellum eliminando il meccanismo del trasferimento del voto dalla lista plurinominale al candidato uninominale e viceversa.
Occorre tornare al voto disgiunto tra quota proporzionale e quota maggioritaria, come succedeva col Mattarellum.
Questo consentirebbe anche di ridurre la dispersione di voti, cioè ridurre quei voti validi che non partecipano alla ripartizione dei seggi.
Alle elezioni del 2022 abbiamo assistito alla crescita dell’astensione e dei voti dispersi. Per esempio, i voti dati a Unione Popolare sono andati completamente dispersi perché non era possibile votare UP nei collegi proporzionali e altro nei collegi uninominali.
L’unico strumento che abbiamo per modificare il Rosatellum è il referendum.
Referendum che è possibile, che si sta mettendo a punto e che va sostenuto con tutte le forze.
Respingere la riforma Meloni in nome della democrazia parlamentare, della centralità parlamentare, significa superare il Rosatellum affinché il Parlamento torni a essere al centro del sistema politico-istituzionale, cosa che da tempo ormai non è.
Questo è oggi possibile solo con un referendum abrogativo che modifichi l’attuale legge elettorale.
Sergio Bagnasco
Sergio Bagnasco vive in provincia di Pavia e lavora nel campo dell’editoria. Da sempre orfano di sinistra, si occupa di politica e in particolare degli aspetti relativi a rappresentanza, costituzione e istituzioni. Fa parte del direttivo nazionale del Comitato per la difesa della Costituzione,