L’esito dei referendum dell’8/9 giugno 2025 stimola non solo una valutazione puntuale del risultato del voto, ma anche una riflessione di tipo generale sullo stato del referendum nel contesto politico-istituzionale italiano e sull’opportunità di una riforma degli istituti di democrazia diretta.
Cominciamo dalla prima questione. Non vi è dubbio che il mancato raggiungimento per i cinque quesiti del quorum di partecipazione, che è stata pari al 29,9% del corpo elettorale, di cui il 30,6% in Italia e il 23,8% dei cittadini residenti all’estero, rappresenta una sconfitta per i promotori, peraltro ammessa dal segretario generale della CGIL. Ciò non giustifica affatto le dichiarazioni sullo spreco di denaro pubblico prodotto dalle consultazioni, fondate su una visione qualunquista e antidemocratica del ricorso al voto popolare che sarebbe condivisibile solo quando fosse sicuro di raggiungere il quorum di partecipazione, il che oggi non può essere certamente garantito ed è fortemente improbabile.
Sull’esito dei referendum è opportuno premettere due considerazioni. La prima riguarda il fatto che la campagna di raccolta delle firme ha riguardato a suo tempo non cinque, ma sei richieste referendarie, in quanto comprendeva anche la proposta di abrogazione totale della legge Calderoli sull’autonomia differenziata n. 86/2024, sottoscritta da 1.291.488 elettori. Com’è noto, la Corte Costituzionale con la sentenza n. 10/2025 ha ritenuto inammissibile tale richiesta in base ad argomentazioni che sono state oggetto di svariate critiche, anche da parte di chi scrive, sulle quali in questa sede non è il caso di soffermarsi. Resta il fatto che si trattava della richiesta che, essendo la meno complessa e di sicuro interesse per tutti i cittadini, avrebbe avuto maggiore probabilità di raggiungere il quorum e quindi di giocare un effetto di traino anche nei confronti degli altri referendum.
La seconda considerazione riguarda la propaganda favorevole alla non partecipazione al voto svolta da partiti e gruppi politici e anche dai titolari di importanti cariche istituzionali, come il Presidente del Senato e la Presidente del Consiglio dei ministri. Non si tratta certamente di una novità in quanto l’invito a non votare è divenuto costante via via che è aumentato il disinteresse e quindi la non partecipazione di un’ampia fascia di elettori. Ovviamente nel nostro ordinamento costituzionale non esiste l’obbligatorietà del voto e quindi vi è la libertà di non esercitare il relativo diritto. Tuttavia il voto ai sensi dell’art. 48, c. 2, Cost. è un “dovere civico” e quindi ha una valenza civile e anche etica, che rende quantomeno inopportuna la propaganda astensionista proveniente dagli affidatari di funzioni pubbliche tenuti ad “adempierle con disciplina ed onore” (art. 54, c. 2, Cost), propaganda che non può essere giustificata neppure con riferimento all’analogo atteggiamento altrettanto criticabile tenuto in passato dai titolari di importanti cariche pubbliche. Occorre considerare inoltre che l’art. 98 del Testo Unico delle leggi per l’elezione della Camera dei deputati n. 361/1957 punisce con una pena detentiva e con una multa i titolari di pubblici poteri che si adoperano per indurre gli elettori all’astensione. Si può sostenere che la disposizione in questione riguarda solo le elezioni politiche, ma la tesi è smentita per tabulas dall’art. 51, c. 2., della legge n. 352/1970 che afferma l’applicabilità delle sanzioni suddette anche per i fatti riguardanti le astensioni di voto relative ai referendum. Anche se pare difficile che in concreto si possa fare ricorso a una sanzione penale, resta il fatto che sia nella Costituzione sia in leggi successive l’invito alla non partecipazione al voto è stato considerato come un disvalore. Alla propaganda astensionista si sono poi aggiunte l’inadeguatezza e la limitatezza anche temporale della informazione relativa ai contenuti dei referendum, che era indispensabile in particolare per quesiti complessi come quelli in materia di lavoro.
Una questione strettamente giuridica è quella del valore da attribuire al quorum, che secondo un’opinione recente non inficerebbe la validità della consultazione per cui la prevalenza dell’astensione equivarrebbe a un voto negativo di respingimento dei quesiti abrogativi (così Mario Esposito, in il Dubbio del 17 ottobre 2025). La tesi è insostenibile, in quanto l’art. 75, c. 4, Cost. distingue chiaramente i due quozienti, quello di partecipazione necessario per la validità del referendum e quello della maggioranza dei voti espressi per l’accoglimento o il respingimento del quesito referendario. Sulla questione, com’è noto, si è espresso con chiarezza l’Ufficio centrale per il referendum presso la Corte di cassazione con l’ordinanza del 7-13 dicembre 1999 nel senso di ritenere non applicabile l’art. 38 della legge n. 352, che in caso di mancata abrogazione vieta la riproposizione del referendum con identico oggetto nei cinque anni successivi, nell’ipotesi del non raggiungimento del quorum in quanto la “mancata partecipazione non conduce ad alcuna espressione di voto, ma sta a denotare soltanto che si è verificata una situazione in cui il Corpo elettorale non ha potuto validamente esprimersi, con efficace manifestazione del proprio consenso o dissenso sulla richiesta di abrogazione della legge”, per cui si deve parlare di votazione “senza esito”. In base a tale ordinanza il referendum abrogativo del voto di lista per l’attribuzione con metodo proporzionale del 25% dei seggi nella Camera dei deputati del 18 aprile 1999, che con il 49,6% dei votanti aveva mancato per poco il quoziente di partecipazione, è stato seguito il 21 maggio 2000 da un referendum abrogativo con identico oggetto che con il 32,4% dei votanti è rimasto ancora più lontano dal quorum.
Veniamo ora a un’analisi di sostanza relativa alle indicazioni che emergono dal voto di chi ha partecipato e in particolare di chi si è espresso in senso favorevole all’abrogazione relativa ai quesiti sul lavoro. Fermo restando il mancato raggiungimento del quorum, il numero dei votanti e dei voti favorevoli all’abrogazione non è stato affatto irrilevante. I quattro quesiti sul lavoro hanno visto nell’ordine la partecipazione di 14.881.967, 14.868.560, 14.854.480, 14.878.787 elettori e ottenuto il voto favorevole dell’87,6%, 86,0%, 87,5%, 85,8% dei votanti. Secondo quanto calcolato nel Dossier referendum di Youtrend, in termini assoluti il dato medio dei Si è stato quasi pari rispetto ai voti ottenuti dalla coalizione di centro-destra nelle elezioni politiche del 2022: leggermente inferiore per i votanti in Italia (12,1 milioni contro 12,3 milioni), superiore per il voto totale comprendente i residenti all’estero (12,9 milioni contro 12,6 milioni). Secondo l’Istituto Cattaneo il totale dei voti favorevoli all’abrogazione nel primo referendum è stato superiore a quelli ottenuti nelle elezioni politiche del 2022 e in quelle europee del 2024 dai partiti che lo sostenevano (Pd, M5S, Avs). Si tratta di un dato politicamente interessante, anche se è ovvio che l’oggetto del voto era diverso da quello delle elezioni politiche e il risultato referendario non mette in discussione la legittimazione del governo in carica, il quale, grazie al sistema elettorale e all’incapacità dei partiti contrapposti di stipulare accordi, ha ottenuto circa il 59% dei seggi alla Camera e il 57% al Senato con un numero di voti pari a un quarto del corpo elettorale e corrispondente a una percentuale rispettivamente del 43,79% e del 44,02% dei voti validi. Dall’analisi dei dati risulta che l’invito all’astensione ha coinvolto la grandissima maggioranza degli elettori del centro-destra, mentre non sembra sia stata significativo l’apporto dei centristi e dei contestatori della Schlein all’interno del Pd. Come certifica Youtrend, poco più di ventimila elettori hanno ritirato le schede sui primi quattro quesiti e non quella sulla cittadinanza o viceversa, mentre poche migliaia hanno ritirato solo alcune schede dei quesiti sul lavoro, come qualche esponente critico del Pd perorava. In sostanza la grande maggioranza degli elettori del Pd ha dimostrato di condividere l’orientamento della segretaria del partito volto a superare la fase renziana fondata su una impostazione economico-sociale neoliberista che nella dialettica capitale/lavoro ha privilegiato gli interessi del primo a scapito dei diritti del secondo.
Diverso è stato l’esito del referendum sulla cittadinanza, nel quale i voti a favore sono stati 9.748.806 (il 65,3%) e quelli contrari 5.172.207 (il 34,7%). In parte ciò è derivato dal fatto che si è trattato di un referendum aggiunto all’ultimo e il cui collegamento con gli altri non si è sedimentato, anche se riguardava direttamente gli immigrati regolari e lavoratori. Per altra parte la consistenza del voto contrario denota l’opposizione di una quota consistente dell’elettorato progressista alla riduzione dei tempi per la richiesta della cittadinanza. Ciò consiglia non di adottare politiche di chiusura analoghe a quelle propugnate dalle destre estreme che, come si è verificato in tutta Europa, portano voti a queste ultime e non ai partiti conservatori e socialdemocratici che tentano di scimmiottarle. Occorre se mai una impostazione di organica revisione della legge sulla cittadinanza, la cui inadeguatezza è stata dimostrata anche dal ricorso della maggioranza di centro-destra a recenti atti legislativi (come il decreto-legge n. 36/2025 convertito nella legge n. 74/2025 e il ddl n. 1450 presentato al Senato l’8 aprile 2025) che limitano l’acquisizione della cittadinanza in base allo ius sanguinis per gli italiani residenti all’estero. Inoltre vanno modificate le leggi sulla regolamentazione dei flussi la cui rigidità ha favorito l’aumento di lavoratori stranieri clandestini e il ricorso a varie sanatorie e infine va disciplinata in modo concreto e efficace una politica di accoglienza per coloro che godono del diritto di asilo in base all’art. 10, c. 3, Cost.
L’esito degli ultimi referendum conferma la necessità di provvedere a riforme dell’istituto, il quale costituisce il più importante strumento di “democrazia diretta” o secondo alcuni di “democrazia partecipativa”, che può consentire ai cittadini di esprimersi in prima persona sulle leggi approvate dal Parlamento. La considerazione di fondo dalla quale partire attiene alla crisi della partecipazione popolare che è costantemente aumentata fino a raggiungere livelli preoccupanti. Ciò si è verificato per il voto politico, che ha registrato nelle elezioni parlamentari del 2022 la non partecipazione al voto del 36,21% degli elettori, percentuale che elle elezioni europee del 2024 è stata del 51,69%. Il dato non è migliore nelle elezioni comunali e regionali, nelle quali ormai frequentemente l’astensione coinvolge più del 50% degli elettori. La crisi della partecipazione si è estesa anche al referendum abrogativo, come dimostra il mancato raggiungimento del quorum del 50%+1 degli elettori in nove delle dieci votazioni referendarie svoltesi tra il 1997 e il 2025, ad eccezione dei quattro referendum votati nel 2011 (relativi alla abrogazione dell’affidamento a privati dei servizi pubblici locali, della presenza all’interno della tariffa del servizio idrico della remunerazione del gestore, della produzione di energia nucleare nel territorio nazionale, del legittimo impedimento per il Presidente del Consiglio e i ministri). L’esistenza di un’alta quota di elettori che non intendono andare a votare per i referendum abrogativi favorisce il ricorso alla propaganda astensionista da parte delle forze politiche contrarie, alle quali basta convincere una percentuale neppure troppo alta di elettori al fine di operare una sommatoria tra chi si oppone e chi non va a votare per indifferenza o disinteresse che rende ormai quasi impossibile il raggiungimento del quorum.
Quindi, se si vuole salvare l’istituto referendario, è indispensabile correggere il quorum. Chi si oppone alla revisione costituzionale prescinde completamente dal fatto che quando il quorum fu fissato alla metà più uno degli elettori in Assemblea costituente (mentre nel progetto di Costituzione presentato dalla Commissione per la Costituzione era pari ai due quinti), la partecipazione al voto superava il 90%, percentuale mantenuta fino al 1979, comunque restata al di sopra dell’80% fino al 2008 e poi calata tra il 2013 e il 2022 dal 75,2% al 63,79%. Ne deriva che ormai le leggi sono approvate da una maggioranza parlamentare che, anche grazie a meccanismi elettorali maggioritari e premiali, è stata eletta da una quota minoritaria di elettori e nel 2022 anche dei votanti. Alla luce dei dati che contrassegnano la crisi della democrazia rappresentativa, suscita sconcerto la posizione di chi rifiuta l’abbassamento del quorum in nome della difesa del ruolo del Parlamento in quanto si ferirebbe “l’impianto parlamentare della Repubblica” (così Sabino Cassese in Il Corriere della Sera del 12 giugno 2025). Suscita sconcerto il fatto che la bandiera in difesa della democrazia rappresentativa venga impugnata da chi non denuncia espressamente lo stato di subordinazione e di vera e propria umiliazione nel quale il Governo ha fatto sprofondare il Parlamento con il ricorso abnorme alla decretazione d’urgenza anche in assenza dei presupposti costituzionali, a decreti-legge dal contenuto non omogeneo, alla questione di fiducia, al divieto di presentare emendamenti ai parlamentari della maggioranza, a meccanismi di velocizzazione dei lavori parlamentari che sono arrivati al punto di rinviare all’aula del Senato il ddl costituzionale sulla “riforma della giustizia” senza che nella Commissione affari costituzionali sia stato designato un relatore. Certo, per riaffermare il ruolo del Parlamento occorre ripristinare l’equilibrio fra i poteri, ponendo limiti più stringenti alla decretazione d’urgenza e alla questione di fiducia, incentivare la partecipazione popolare abbandonando il sistema da tempo imperante delle liste bloccate e adottando una formula elettorale di tipo proporzionale più rappresentativa dell’effettiva volontà popolare, infine rinnovare i partiti politici in base a una legge quadro che dia attuazione all’art. 49. Cost. Ma non meno importante è rilanciare il ruolo degli istituti di democrazia diretta.
Per il referendum abrogativo andrebbero rivisti con una revisione dell’art. 75 Cost. sia il quorum sia il numero delle firme necessarie. Fermo restando che un quorum deve esservi onde evitare che l’abrogazione possa essere deliberata da un numero anche esiguo di elettori, esso potrebbe essere indicato nella maggioranza dei votanti alle ultime elezioni politiche, come molti costituzionalisti hanno proposto, o sostituito da un quoziente calcolato sulla percentuale di voti favorevoli all’abrogazione, come quello non inferiore al 25% degli elettori che il 3 dicembre 2018 ho proposto in audizione di fronte alla Commissione affari costituzionali della Camera e poi è stato accolto dall’aula il 21 febbraio 2019 in sede di prima approvazione del ddl costituzionale recante “Disposizioni in materia di iniziativa legislativa popolare e di referendum”. La revisione del quorum, oltre a essere più rispettosa dell’orientamento popolare, avrebbe il vantaggio di ostacolare gli inviti all’astensionismo di chi è contrario all’abrogazione costringendolo nell’incertezza del suo possibile raggiungimento a partecipare alla campagna a sostegno delle ragioni del No. A sua volta potrebbe essere incrementato il numero delle sottoscrizioni necessarie (800.000 elettori poterebbe essere un numero ragionevole), anche in considerazione della possibilità di fare ricorso alla firma digitale, una novità sicuramente positiva di cui solo il ministro Calderoli ha avuto l’improntitudine di proporre l’abolizione. Sarebbe anche opportuno anticipare il giudizio di ammissibilità della Corte costituzionale al momento della raccolta di un numero consistente di firme, che nel ddl costituzionale approvato alla Camera nel 2019 era pari a duecentomila, al fine di dimostrare la serietà dell’iniziativa referendaria. Infine potrebbe essere attentamente considerata l’ipotesi, proposta ripetutamente da Massimo Villone (da ultimo ne Il Fatto del 22 giugno 2025), di introdurre il voto on line, utilizzando la piattaforma già predisposta per la firma digitale, con accorgimenti tecnici volti a garantirne la segretezza e la personalità.
Ritengo inoltre che occorra ripensare anche all’istituto della iniziativa legislativa popolare. Una riforma positiva consisterebbe nel modificare il regolamento della Camera in senso analogo a quanto avvenuto con il nuovo art. 74 del regolamento del Senato riformato nel dicembre 2017, in base al quale l’esame dei disegni di legge di iniziativa popolare deve concludersi entro tre mesi dall’assegnazione alla commissione competente e, decorso tale termine, il ddl è iscritto d’ufficio nel calendario dei lavori assembleari con la garanzia che la discussione si svolga sul testo dei proponenti. Sarebbe certo positivo ma non sufficiente. Occorrerebbe riprendere anche modificandola la proposta di revisione dell’art. 71, c. 2, Cost., approvata in prima lettura dalla Camera il 21 febbraio 2019, in base alla quale una proposta di legge, sottoscritta da 500.000 elettori (ma anche in questo caso il numero dei sottoscrittori potrebbe essere opportunamente aumentato), sarebbe stata sottoposta a referendum qualora le Camere non l’avessero approvata entro diciotto mesi dalla presentazione o lo avessero fatto con modifiche non meramente formali. Il ddl stabiliva, oltre a varie ipotesi di inammissibilità della proposta di legge popolare, che l’approvazione referendaria richiedesse la maggioranza dei voti validi superiore a un quarto degli aventi diritto al voto, che la procedura fosse regolamentata con legge approvata a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera, che la Corte costituzionale esercitasse il controllo di ammissibilità preventivo al momento della raccolta di duecentomila firme, che un organo terzo verificasse se le modifiche apportate nel testo approvato dalle Camere non fossero meramente formali.
L’opportunità di perseguire la realizzazione di una autentica iniziativa popolare, o se si preferisce di un referendum propositivo (proposto insieme a quello di indirizzo dal ddl costituzionale bocciato dal referendum del 4 dicembre 2016), pur da adottare con opportune limitazioni e cautele, sarebbe giustificata dalla considerazione che il referendum abrogativo, frutto dell’ampia potatura delle proposte avanzate da Mortati in Assemblea costituente e assai raro a livello comparativo, non può avere un effetto propositivo e ciò ha spinto spesso i promotori a utilizzarlo con una tecnica manipolativa al fine di attribuire alla legge oggetto di abrogazione parziale un significato diverso da quello originario. L’iniziativa popolare quindi non solo consentirebbe a un numero consistente di elettori di manifestare in positivo la propria volontà finalizzata all’introduzione di una nuova disciplina legislativa, ma produrrebbe anche l’effetto di ricondurre il referendum ex art. 75 alla sua ratio costituzionale di sottoposizione al popolo dell’abrogazione o meno di una questione che comporta una chiara scelta di tipo binario.
In conclusione le riforme sono necessarie se si vuole ostacolare la tendenza perniciosa al fallimento ripetuto del ricorso a fondamentali istituti di partecipazione popolare, che è reso ancora più necessario dalla crisi della democrazia rappresentativa e dallo squilibro tra i poteri a danno del Parlamento.
*Già Professore Ordinario di Diritto Costituzionale Italiano e Comparato presso l’Università di Perugia