Se voi, uno per uno, poteste venire a denunciare le ingiustizie subite e viste intorno a sé, questo incontro si trasformerebbe in un’interminabile lamentazione. Coloro che ignorano le sofferenze altrui le considerano un prezzo inevitabile da pagare (da far pagare, più precisamente) al “sistema sociale”. Si comportano come quelle figure sulla “nave dei folli” che naviga tranquilla sulle turbolenze profonde sotto la superficie.
Ignorare la realtà si può soltanto per un po’, dipingendola in rosa quando rosea non è affatto. Si può anche tentare di addomesticarla. Se il disagio sociale è grande, come in effetti è, c’è però un limite.
Dove sia, non si sa, ma c’è. Lo si può sapere solo a posteriori quando è troppo tardi e si entra in pericolose avventure.
Le ingiustizie e le tensioni non si governano indefinitamente con bonus, favori, sussidi, sconti, condoni, slogan, diversivi e propaganda per tacitare, ora qua e ora là, il malessere di questa o quella categoria quando minaccia di esplodere. Sono sedativi, insufficienti a governare.
Occorrono politiche, non sedativi.
Queste pratiche, oltre a denotare impotenza, alla lunga spengono le energie e riducono i cittadini in postulanti di favori, di vantaggi, di regalie o di mance.
Un miscuglio di postulanti non è una società. È una massa di clienti. Soprattutto non è libera, né giusta, né democratica. Vive di pressioni e di ricatti. Coloro che possono esercitare pressioni e si adeguano ai ricatti, ottengono ciò che vogliono; i fragili e i deboli senza protezioni sono dimenticati, lasciati a loro stessi, abbandonati ai margini.
Nella migliore delle ipotesi, trovano beneficenza. Ma la beneficenza è una virtù personale che c’è ma può non esserci. Non dà le certezze che solo una solida struttura di diritti e di doveri può assicurare.
Dieci anni fa si svolse qui a Roma un’imponente manifestazione popolare per reclamare politiche nel segno della Costituzione. Aveva come programma un documento intitolato “La via maestra”, le stesse parole che intitolano l’incontro odierno.
Quel documento sembra scritto oggi. Questa non è affatto una soddisfazione.
Sarebbe bello poter dire che è superato. Al contrario: le storture non sono state raddrizzate. Le ingiustizie, di certo, non sono andate diminuendo. Anzi, si sono accentuate. Leggiamo l’inizio di quel che dicevamo allora.
“Di fronte alle miserie, alle ambizioni pe rsonali e alle rivalità di gruppi spacciate per affari di Stato, invitiamo i cittadini a non farsi distrarre. Li invitiamo a interrogarsi sui grandi problemi della nostra società e a riscoprire la politica e la sua bussola: la Costituzione. La dignità delle persone, la giustizia sociale e la solidarietà verso i deboli e gli emarginati, la legalità e l’abolizione dei privilegi, l’equità nella distribuzione dei pesi e dei sacrifici imposti dalla crisi economica, la speranza di libertà, lavoro e cultura per le giovani generazioni, la giustizia e la democrazia in Europa, la pace: questo sta nella Costituzione”.
Ben detto. Oggi ci chiediamo: a che punto siamo? Meglio o peggio? Consideriamo le tante fratture che dividono le genti che popolano il nostro Paese, riflessi di ingiustizie ataviche e di altre che l’economia globalizzata e finanziarizzata ha generato. Facendone un elenco, non soffermiamoci su parole astratte. Consideriamo come nostre le condizioni di vita reale di tante persone e di tante famiglie che possono riconoscersi in questo elenco.
Un narratore realista che volesse immergersi nel degrado sociale di questo nostro decennio avrebbe un’ampia disponibilità di scelte. Senza lavoro che disperano di trovarne uno, rinunciano a cercarlo e si abituano a sopravvivere di espedienti. Lavoratori precari e senza contratto, la cui condizione può precipitare da un momento all’altro. Paghe da sfruttamento. Lavoro esposto a ricatti e a pericoli per la salute e per la vita. Ansia per il futuro e angoscia per sé, per i familiari, soprattutto per i bambini.
Frustrazione per dover rinunciare ai figli. Abitazioni che mancano o in mano al degrado e alla criminalità. Cure mediche come privilegio di chi può permettersele. Scuole per ricchi e abbandono scolastico per i poveri.
Vita nelle periferie degradate, in zone rurali dimenticate o in luoghi inquinati e mortiferi.
Ragazzi disintegrati, prede della criminalità. Ragazze abusate. Donne discriminate sul lavoro e vittime dei loro compagni. Migranti senza patria che vivono da clandestini o in centri di raccolta simile al concentramento. Evasori fiscali, parassiti dei cittadini onesti. Intolleranze, violenze e, perfino, rigurgiti razzisti.
Giustizia diversa per ricchi e poveri.
Abbandono dei luoghi poveri, sradicamenti e spaesamenti della gioventù soprattutto nel Sud del Paese. Su tutto, la concentrazione crescente, in misure mai viste, della ricchezza e ostentazione ai tanti ignari da dove viene. Non solo l’Italia, ma l’umanità intera è divisa per “stili di vita” e, per difendere i propri quando si è dalla parte del privilegio, si è disposti a tutto, anche alla guerra.
Che esistano queste ingiustizie e si sia in una o nell’altra parte dell’umanità, non dipende soltanto dalla sorte, cioè dalle famiglie in cui hai la fortuna o la sfortuna di nascere, dalle terre e dal clima in cui ti è toccato vivere, dalle opportunità che esistono. La sorte è cieca, né giusta né ingiusta. La politica, però, ci permette di fare delle scelte. Tuttavia, non ha assicurazioni sulla strada che imbocca. Può combattere le storture in nome della giustizia, ed è la strada difficile. Oppure, facilmente, può imboccare quella dell’ingiustizia e assecondare la prepotenza, la predazione e, talora, la rapina che, per ingentilirle, chiamiamo sviluppo e progresso. È stato detto: “il mondo è malato”.
È malato non solo perché non l’abbiamo curato, ma anche perché le nostre politiche in certi casi hanno aggravato la malattia. Il sintomo più evidente della gravità è la guerra, causa ed effetto di immani ingiustizie. Anche noi, dalla malattia del mondo siamo toccati. Il nostro Paese ne è vittima, e anche, per non piccola parte, ne è causa. Ci chiediamo come tentare di venirne fuori. Consideriamo che tutte le ingiustizie che constatiamo sono indicate dalla Costituzione come storture da raddrizzare. Ma non crediamo che essa ci dia le soluzioni. Ci indica prospettive di giustizia e, per questo, la vogliamo difendere come cosa preziosa. Non cadiamo, però, nella retorica della “Costituzione più bella del mondo”, come se fosse un feticcio. Essa è un compito difficile, tanto più difficile quando le risorse materiali scarseggiano e le risorse morali necessarie sono spesso da ricostruire nel segno della solidarietà. La solidarietà è il contrario dell’egoismo. È la disponibilità a sopportare sacrifici particolari per il bene di tutti. È la convinzione che non c’è giustizia se solo noi e non tutti gli altri sono soddisfatti nelle nostre pur giuste pretese. La solidarietà è al centro della società giusta e la Costituzione la esige come condizione necessaria. È il contrario delle divisioni. Per questo, si deve dire no alle riforme che mettono gli uni contro gli altri: il Nord contro il Sud, come potrebbe accadere con ciò che chiamano autonomia differenziata; no ai presidenzialismi che mettono una metà dei cittadini contro un’altra. C’è molto da fare insieme, in unità d’intenti, da parte della cultura, dell’associazionismo di ogni natura, delle Chiese, del volontariato, del sindacato, dei partiti politici, di tutti coloro che sono oggi riuniti sotto lo slogan “La via maestra”. Tra dieci anni, forse, ci ritroveremo. Ci chiederemo di nuovo: “a che punto siamo?” Uniamoci affinché, a quell’ora, si possa dire: la Costituzione è viva perché in molti ci siamo impegnati per farla vivere.