Un’ordinaria crisi di governo si è trasformata in una drammatica crisi istituzionale. Non si possono sottovalutare i rischi di una caduta nell’anomia costituzionale. A scatenare la crisi il rifiuto del Presidente Mattarella di firmare il decreto di nomina di un ministro. In base ad una interpretazione discutibile ma non eversiva dell’articolo 92 della costituzione.
Infatti i limiti del potere presidenziale di nomina sono dettati dal ruolo di garante e di rappresentante dell’unità nazionale, ed è da dubitare che si possa spingere sino a precludere la partecipazione di un componente al governo motivate dalle opinioni da questo espresse in passato, anche ove queste fossero state aspramente critiche nei confronti delle politiche monetarie o europee.
D’altronde, la formula definita in costituzione (il presidente della repubblica nomina i ministri «su proposta» del presidente del consiglio) lascia certamente uno spazio d’interlocuzione al capo dello Stato, che in questo caso non si è potuto coltivare di fronte alla indisponibilità del presidente incaricato. Si può discutere dunque la decisione di Mattarella ma non si può certamente configurare come reato presidenziale (ex articolo 90 Costituzione). Solo chi vuole soffiare sul fuoco dell’instabilità istituzionale può oggi proporre la messa in stato d’accusa per alto tradimento o attentato alla costituzione. Non può infatti affermarsi che il capo dello Stato abbia operato per fini politici di parte contro l’interesse del paese, a ben vedere sono stati proprio questi interessi che hanno (discutibilmente) motivato il rifiuto. Dunque un problema di interpretazione costituzionale, non di responsabilità penale.
MA È IL COMPLESSO della crisi nella quale siamo precipitati che appare assai inquietante. Ciò che maggiormente dovrebbe allarmare è che nessun attore politico sembra volere tenere in giusta considerazione gli equilibri istituzionali, le prassi e i precedenti costituzionali che reggono l’iter di formazione dei governi. Non ha una chiara legittimazione costituzionale infatti il «contratto» di governo stipulato da soggetti privati (i capi dei partiti che si apprestavano a sostenere il governo). Uno strumento di diritto privato che s’è preteso prendesse il posto del programma di governo che deve essere definito – in accordo con le forze politiche di maggioranza – dal presidente del consiglio dei ministri. Un’interpretazione disinvolta dell’articolo 95 della nostra costituzione che affida a quest’ultimo (non ai leader dei partiti, né ad un notaio) la responsabilità e la direzione della politica generale del governo.
ANOMALA ANCHE l’indicazione – e poi l’incarico – del professor Conte. In questo caso alcune critiche espresse nei suoi confronti non sono fondate: che non fosse parlamentare appare in fondo irrilevante (anche Renzi non era stato eletto quando ha ricoperto la carica di presidente del consiglio). Neppure si tratta di discutere il profilo “tecnico” del giurista di Firenze (la competenza non può rappresentare un handicap politico). Ciò che ha lasciato invece perplessi è il rapporto fiduciario di natura – ancora una volta – «privatistica» tra l’incaricato e i due leader di partito. Come se avessero scelto più un loro avvocato che non un soggetto cui affidare pubbliche funzioni. Anche in questo caso in gioco è la legittimazione dell’organo costituzionale e le garanzie di autonomia del responsabile dell’indirizzo politico e amministrativo del governo.
PERSINO IL RIFIUTO preventivo di alcune forze politiche di discutere le proprie proposte per collocarsi in un ruolo di opposizione «a prescindere», tanto più in una situazione caotica come l’attuale, non dimostra un grande senso di responsabilità. Il «compromesso parlamentare», ci ha insegnato Hans Kelsen, non può fare a meno del fondamentale apporto di tutte le forze presenti in parlamento.
TUTTO L’ANDAMENTO della crisi mostra in sostanza una progressiva privatizzazione dei rapporti politici che tende a bypassare le logiche propriamente parlamentari e a scardinare i delicati equilibri costituzionali. In primo luogo compromettendo gravemente le modalità con cui devono essere esercitate le funzioni di garanzia del capo dello Stato. Un delicatissimo «potere di persuasione», che – ha puntualmente ricordato la Corte costituzionale nella importante sentenza n. 1 del 2013 – si compone di «attività informali, fatte di incontri, comunicazioni e raffronti dialettici [che] implicano necessariamente considerazioni e giudizi parziali e provvisori da parte del Presidente e dei suoi interlocutori».
Un’attività che – scrive ancora la Consulta – verrebbe «inevitabilmente compromessa» dalla pubblicizzazione dei contenuti e dal non rimanere riservati. In particolare, è sempre stata considerata condizione necessaria per l’operato presidenziale – organo di mediazione e garante politico della costituzione – che i rapporti con i soggetti politici fossero improntatati alla leale collaborazione. Ora, invece, è stata messa sotto accusa la legittimazione dell’organo, i rapporti tra presidenza, partiti e leader appaiono improntati alla minaccia («veti», «diktat», «arrabbiature»), nel silenzio attonito dell’opposizione e tra le urla della moltitudine indignata. Sta saltando tutto. La crisi politica tracima in crisi costituzionale. C’è da essere assai preoccupati.