Francamente non ho mai esultato per una condanna, e anche stavolta non provo nessun particolare piacere al pensiero che Marcello Fiori, già potentissimo commissario berlusconiano di Pompei, dovrà versare allo Stato 400.000 euro. Ma la sentenza (definitiva) della III sezione giurisdizionale centrale d’appello della Corte dei Conti stesa dalla consigliera Cristiana Rondoni e firmata dal presidente Angelo Canale è davvero importante, per il governo futuro del patrimonio culturale italiano e per la linea culturale e giuridica che afferma. Come ha scritto Gian Antonio Stella, commentandola sul Corriere, la condanna di Fiori potrebbe “far passare finalmente la voglia, ai soprintendenti di manica troppo larga, di dare la precedenza alle baracconate che odorano di soldi invece che alla custodia del nostro immenso patrimonio”.
Il risultato si deve alla tenacia della Procura contabile della Campania, e in particolare al viceprocuratore generale Donato Luciano. Devo subito dire che in questa vicenda non sono neutrale, perché fui io a scrivere la perizia per la procura, sostenendo la tesi ora accolta in toto dal tribunale: e cioè che non si può valorizzare un bene culturale impedendone la fruizione culturale, e danneggiandolo materialmente. Bella forza, direte voi: ma non è (o almeno non era) per nulla evidente che fosse così.
La storia è nota. Nel maggio 2010 il Teatro Grande di Pompei viene investito da una specie di tsunami che il commissario Fiori sostenne essere “valorizzazione”: martelli pneumatici e colate di cemento abilitarono il teatro antico a diventare location di spettacoli. Mentre incombeva la prima diretta da Riccardo Muti (che manco rispose agli intellettuali napoletani che gli scrissero chiedendogli di non legittimare quello scempio con la sua presenza) si costruirono dal nulla una cavea di tufo e un palcoscenico con le sue sostruzioni, si assediarono le rovine con orridi containers di metallo (ancora lì), si montarono enormi torri sceniche per le luci. Un insensato disastro.
Un caso isolato? Purtroppo no. Dalla realizzazione di ascensori in palazzi storici (per esempio sul Vittoriano, ma anche nello stesso Collegio Romano, sede del ministero per i Beni Culturali) alla costruzione di oscene biglietterie in chiese storiche (dal portico gotico di Santa Croce a Firenze, a San Biagio a Montepulciano), dalla ‘vetrificazione’ di monumenti nati senza chiusure (come la Loggia del Tiratoio a Gubbio) alla cementificazione di castelli storici (come quella del Maniace a Siracusa), alla destinazione di monumenti a spettacoli a ciclo continuo che di fatto li divorano (è il caso della bella chiesa romanica di Santo Stefano al Ponte a Firenze), a ciò che potrebbe toccare al Colosseo per ricostruirvi la mitica arena, o a San Bernardino all’Aquila per realizzare un parcheggio sotterraneo. Ciò che unisce tutti questi “attentati” al patrimonio culturale è riassunto nella litania che sale incessantemente dalle bocche degli zelanti sacerdoti del culto del mercato: “Valorizzazione, valorizzazione, valorizzazione…”.
Ebbene, oggi la Corte dei Conti zittisce la litania: non tutto è ammissibile, nella valorizzazione. Si prende finalmente atto che il fine che il Codice dei Beni culturali assegna alla valorizzazione è quello di “promuovere la conoscenza del patrimonio” stesso, allo scopo di “promuovere lo sviluppo della cultura”. Il metro per stabilire se un atto rientri o meno nell’ambito della valorizzazione è dunque quello della conoscenza: se vi è un aumento di quest’ultima (in termini di apertura ad un più vasto numero di cittadini, o in termini di incremento della quantità e qualità della conoscenza del monumento), si tratta di valorizzazione. Se, al contrario, la fruibilità, la visibilità, la conoscenza del monumento diminuiscono, o risultano addirittura impedite (in tutto o in parte, permanentemente o per un certo lasso di tempo), non si può parlare di valorizzazione, ma anzi di negazione del valore culturale, e dunque di annientamento della funzione di quel ‘bene’.
La sentenza della Corte dei Conti va anche oltre, smentendo orde di ministri, assessori e giornalisti per cui la valorizzazione significa monetizzazione (in ossequio al fatto che l’unico “valore” riconosciuto è quello del soldo): “La valorizzazione del bene culturale non può essere assimilata al mero ‘sfruttamento’ dello stesso per fini di natura imprenditoriale-commerciale, né deve in alcun modo alterare le caratteristiche fisiche del bene o ridurne la fruibilità pubblica, posto che il bene culturale, e soprattutto quello archeologico che cristallizza la nostra storia, resta sempre il bene pubblico per eccellenza”. Quest’ultima affermazione, per quanto lapalissiana per chi abbia letto anche solo di sfuggita l’articolo 9 della Costituzione, è costantemente smentita dai fatti, e rappresenterebbe di per sé un compiuto programma di politica del patrimonio culturale. Dopo la stagione di Dario Franceschini e della sua variopinta corte, in cui la retorica della privatizzazione e della valorizzazione raggiunse l’apice in parole e opere, oggi assistiamo di fatto a un vuoto politico: quale l’idea, quale la direzione, quale la visione del Movimento 5 Stelle attualmente al governo dei Beni Culturali? Tra segnali contrastanti e marce indietro, tocca come sempre alla magistratura riempire il vuoto.