Muhammad e la Biennale degli “internati di Gaza”

di Tomaso Montanari - Ilfattoquotidiano.it - 02/12/2024
Oltre l’assedio. Gli artisti cercano d’affidare le opere ai volontari e al web. La curatice: “Le istituzioni internazionali espongano disegni e dipinti”. Lo faccia il Maxxi

C’è qualcosa di osceno nello stare qua a discutere se a Gaza sia in corso o no un genocidio: come se discutessimo della guerra del Peloponneso, o della crociata contro gli Albigesi. Perché questo sta succedendo ora : nel nostro tempo, a pochi chilometri da noi. Potremmo fermarlo, se davvero volessimo: in qualunque momento. Due milioni di persone sono chiuse in quello che è ora un enorme campo di concentramento: un esercito nemico li assedia, li affama, li uccide ogni giorno. Come chi ha subìto violenza da piccolo, Israele sta ripetendo (non importa se su un’altra scala, e con altro contesto) l’immane violenza che sta all’origine della sua nascita. È così terribilmente evidente, ormai. Non è una guerra, questa: è uno sterminio sistematico su base etnica. E quando tutto sarà finito, quando i palestinesi di Gaza saranno finiti, noi continueremo ancora a discutere.

Perché non finisca così, abbiamo bisogno di ripetere a noi stessi quello che Shylock dice nel suo monologo celeberrimo: anche i palestinesi, come gli ebrei e come noi, sono fatti di carne. Soffrono, sanguinano, muoiono. E se c’è una cosa che lo dimostra è che anche ora, anche in queste condizioni, anche sulla soglia della morte, gli artisti chiusi a Gaza continuano a fare arte. Uno di loro, Muhammad al-Hajj, lo abbiamo invitato formalmente all’Università per Stranieri di Siena, proprio come Aya Ashour – la nostra meravigliosa, coraggiosa Aya. Ma anche Muhammad non riesce a uscire: rimane inchiodato lì, con la sua famiglia. Ma disegna, dipinge (con i materiali che ancora riesce a trovare) e posta su Instagram e Facebook le sue opere. Qualche giorno fa, il Guardian ha raccontato la sua storia e quella degli altri circa cinquanta artisti della Striscia, che stanno provando a preparare una loro ‘biennale’. Commuove profondamente questa scelta: scegliendo per la loro impresa il nome della Biennale (questo mostruoso carrozzone di marketing e potere oggi così remoto dai veri sentieri dell’arte, e che ha contribuito tanto allegramente alla devastazione di Venezia), lo hanno in qualche modo redento, reso puro. Sarebbe l’unica Biennale che vedrei davvero con venerazione: la Biennale degli artisti internati, prigionieri, affamati, ostaggi, moribondi. Una cosa unica nella storia dell’arte universale. Per questo gli artisti stanno facendo uscire le loro opere dall’assedio: affidandoli ai volontari, affidandoli alla rete attraverso immagini ad alta definizione. La ‘curatrice’ di questa Biennale è Tasneem Shatat, una ventiseienne di Khan Younis, che ha detto al Guardian: “La guerra ha rubato molte cose a noi e alla gente di Gaza e continua a rubare tutto, ma il mondo rimane in silenzio. Vogliamo che le istituzioni internazionali di tutto il mondo ​ ospitino questi disegni e dipinti e li espongano. Non racconteremo le storie che il mondo già conosce bene, ma racconteremo la rinascita dall’oscurità dell’ingiustizia, racconteremo una vita in mezzo alla morte”.

E Haji ha detto che “Attraverso l’arte, mandiamo un messaggio al mondo: ‘siamo ancora vivi e, finché respiriamo, possiamo far luce su tutto ciò che sta accadendo qui”. Siamo ancora vivi: parole che ci fanno vergognare, perché fanno giustizia di tutta la nostra commerciale retorica sulla ‘bellezza’, e ci restituiscono il senso più autentico e profondo del fare arte, inestricabilmente connesso al rimanere vivi. Gli artisti di Gaza cercano anche una sede, una galleria o un museo che li ospiti. E allora dovrebbe essere uno dei nostri grandi musei, dovrebbe essere il Maxxi, ad ospitare questa Biennale: a farne un evento clamoroso e ineludibile, invitando i maggiori storici dell’arte e intellettuali europei a scrivere nel catalogo. Sarebbe un atto di accusa, nei confronti di Benjamin Netanyahu e della cricca di criminali che con lui governa Israele: un accusa non meno forte di quella avanzata dalla Corte Penale dell’Aja.

Non sottovalutiamo la forza della cultura: Voltaire scrive che nessuno ricorda la politica e i politici del primo Cinquecento, ma Raffaello e Michelangelo sono ancora vivi. Qualche mese fa, un piccolo e meraviglioso editore ha pubblicato una nuova, curatissima traduzione del capolavoro del massimo poeta palestinese, Mahmud Darwish (Perché hai lasciato il cavallo alla sua solitudine?, cura e traduzione di L. Ladikoff Guasto, Edizioni degli animali, Milano). Nell’introduzione, è tradotta una intervista della curatrice all’autore, fatta nel 2008. Alla domanda: “La infastidisce l’etichetta di ‘poeta della resistenza palestinese’”, Darwish risponde: “È vero che sono il risultato di una tragedia, ma non sono solo quello”. Le opere degli artisti di Gaza non sono solo documenti di un immane massacro, sono arte capace di restituire anche a noi la nostra umanità. Perché condividiamo la stessa natura umana, anche se noi, qua, fingiamo di non vederlo. E – come scrive Darwish in quel libro – “se non fosse per la rivoltella | il flauto si unirebbe al flauto”.​

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