Cosa c’è dietro la guerra dei dazi

di Alfonso Gianni - transform-italia.it - 13/04/2025
La strategia dei contro dazi rischia di essere facilmente schiacciata dalla logica della trattativa con ogni singolo paese da parte degli Usa e dal maneggio alternato del bastone e della carota.

Se si potessero tradurre in un grafico le innumerevoli e contradditorie dichiarazioni ed azioni di Donald Trump, ne risulterebbe probabilmente un tracciato simile a quello di una pallina  in un flipper. Un zigzagare improvviso e imprevedibile, da una parte all’altra, un salire e scendere senza una direzione definitiva e coerente, ma sempre con il massimo di energia nella spinta. Tutto ciò non significa affatto che siamo di fronte a un pazzo come viene descritto in frequenti banalizzazioni, o quantomeno faremmo bene a indagare il metodo che vi è quella follia, seguendo il consiglio implicito nel famoso detto shakespeariano (“there’s method in his madness”). In altre parole Trump sta non solo implementando un credo ideologico e ferocemente classista, ma sta seguendo a modo suo un piano che è alla base di quella che ormai possiamo chiamare trumponomics. Del resto l’autorevole The Economist, oggi tra i più critici, come il Wall Street Journal, sulle scelte trumpiane, non molto tempo fa titolava prudentemente che la “Trumponomics potrebbe non essere così male come molti si aspettano”1

Ma certamente il 2 aprile 2025 Trump ha delineato con la consueta ruvidezza una svolta drastica nella politica estera, economica e finanziaria degli Usa, buttando per aria regole e intese che riguardavano il commercio mondiale e creando conseguentemente forti turbolenze sui mercati finanziari. Non era mai successo, almeno in questi termini e in queste proporzioni nel secondo dopoguerra, anche se i primi segnali si erano avvertiti durante la prima presidenza di Trump. Al punto che emergono incrinature tra Musk e il tycoon, avendo il primo interessi assai concreti da tutelare in diverse parti del mondo, mentre la popolarità di Trump è in discesa rapida anche in Occidente. Nel nostro paese, ad esempio – ove la Meloni cerca di restare aggrappata al Presidente Usa, in un gioco di spericolato equilibrismo nei confronti della Von der Leyen, mentre Salvini si propone come il più autentico sostenitore della linea d’oltreoceano – recenti sondaggi, che certo non sono verità assolute, ma spesso indicano tendenze reali, testimoniano un rapido crollo di fiducia da parte de inostri  cittadini nei confronti di Trump.2 Intanto le Borse segnano pesanti passivi sia in Europa che in Asia; Wall Street sale e soprattutto scende a seconda delle voci, vere o false che siano, che si inseguono nell’arco della giornata e persino l’oro che aveva toccato vette inconsuete le sta abbandonando rapidamente.3

Un simile sconvolgimento  non era certamente imprevedibile. Anzi era messo nel conto da Trump e dai suoi consiglieri economici. Vi è infatti una ragione di fondo che sta dietro le sue mosse ed un piano specifico.

Il già citato Wall Street Journal aveva definito “stupida” la guerra commerciale intrapresa da Trump. Ma non è così. Ce lo suggeriscono due studiosi americani, l’uno operante a San Francisco, l’altro a Pechino, i quali ci avvertono che le guerre commerciali sono in realtà guerre di classe.4 Il perché è semplice. I dazi e i contro dazi aumentano inevitabilmente i prezzi delle merci in una economia integrata che tale rimane malgrado il rinculo della globalizzazione; quindi l’inflazione riparte e a farne le spese sono i ceti, le classi meno abbienti e interi popoli di quello che ormai siamo soliti chiamare (con una definizione di carattere più politico ed economico che non geografico) il Sud globale. Non è quindi come dice Jeffrey Sachs, pur all’interno di una intervista piena di buone cose, “che sarà una battaglia lose-lose, tutti hanno da perdere”.5 Non tutti. Il fatidico 1% ne trarrà ulteriore vantaggio e le diseguaglianze già così enormi si approfondiranno ulteriormente. “E’ il momento di arricchirsi” ha detto Trump, inconsapevolmente – credo – ricalcando quasi il celebre invito lanciato, in tutt’altra condizione, da Deng Hiaoping. Il progetto di fondo di Trump è esattamente quello non solo di vincere la lotta di classe – cosa già avvenuta, come ci ha detto Warren Buffet – ma di stravincerla, anche a costo di calpestare quella middle class e quelle parti di classe operaia della Rust Belt (“la cintura della ruggine”, ovvero le zone deindustrializzate) che pure lo hanno votato.6

Questo disegno di fondo, per riuscire, ha bisogno di un piano, per quanto rischioso, che si muova a livello internazionale. Questo gli è stato fornito in un  paper – “A user’s Guide to Restructuring the Global Trading System” – elaborato nel novembre del 2024 dal suo principale consigliere economico Stephen Miran.7 Il nocciolo della questione è subito esplicitato nelle prime righe del testo “La radice degli squilibri economici risiede nella persistente sopravvalutazione del dollaro che impedisce l’equilibrio del commercio internazionale e questa sopravvalutazione  è guidata dalla domanda anelastica di attività di riserva. Con la crescita del Pil globale diventa sempre più gravoso per gli Stati Uniti finanziare la fornitura di attività di riserva e l’ombrello della difesa, poiché i settori manifatturiero e commerciale sopportano il peso dei costi.” Il primo step di questo percorso è appunto rappresentato dall’aumento dei dazi. Miran si rende perfettamente conto che questo può portare in un primo momento, per  l’aumento dei prezzi e quindi dell’inflazione, a un rafforzamento del dollaro, anziché ad un suo indebolimento come sarebbe da lui stesso auspicato quale obiettivo di fondo di tutto il piano. Infatti lo scrive nella pagina conclusiva del paper: “In ogni caso, poiché il presidente Trump ha dimostrato che i dazi sono un mezzo con cui può estrarre con successo leva negoziale (ed entrate) dai partner commerciali, è molto probabile che i dazi vengano utilizzati prima di qualunque strumento valutario. Poiché i dazi sono positivi per il dollaro statunitense, sarà importante per gli investitori comprendere la sequenza delle riforme del sistema commerciale internazionale. E’ probabile che il dollaro si rafforzi prima di invertirsi, se ciò avviene.”

Ma nessuna paura, fa capire Miran, perché gli Usa hanno altre frecce al loro arco. Certamente, spiega, “storicamente gli accordi multilaterali sulla valuta sono stati il mezzo principale per attuare cambiamenti internazionali nel valore del dollaro”. Come fu con il Plaza Accord del 1985, ove Usa, Francia, Germania, Giappone e Regno Unito si sono coordinati per indebolire il dollaro, frenandone poi l’eccessiva discesa con il successivo Louvre Accord del 1987. Ma allora il quadro era decisamente diverso. Ad esempio mancava un player, oggi diventato un protagonista e un antagonista, dal punto di vista statunitense, sulla scena mondiale, quale è la Cina. E’ difficile oggi immaginare un accordo monetario multilaterale, una sorta di Mar-a-Lago Accord, dal nome della residenza in Florida di Trump. Allora, dice Miran, bisogna ricorrere al metodo del bastone e della carota: “Innanzitutto c’è il bastone delle tariffe. In secondo luogo c’è la carota dell’ombrello della difesa e il rischio di perderla”. Ecco quindi che il disegno strategico per riacchiappare la centralità e il dominio del dollaro nel commercio e nei mercati globali, e con esso la diminuzione del deficit commerciale  e dell’enorme debito degli Usa, si intreccia indissolubilmente con la costruzione di un sistema di guerra che funzioni da ricatto e minaccia permanenti. E che, per avere efficacia, non può basarsi solo su guerre latenti, ma su guerre effettivamente guerreggiate e possibilmente infinite se viste nel loro insieme, al di là dei singoli luoghi dove possono accendersi e (provvisoriamente) spegnersi. I pericoli di contro dazi, almeno nel campo dove ancora ha determinante voce in capitolo la declinante potenza di Washington – ad esempio l’Europa – sarebbero così eliminati o almeno fortemente attutiti dalla capacità di manovrare il bastone e la carota. Da qui la necessità di scavalcare ogni sistema di intermediazione a livello mondiale, come quelli nati alla fine della seconda guerra mondiale così come quelli che hanno cercato di governare la globalizzazione nel suo periodo più aureo, cioè l’ultimo ventennio del secolo scorso, e di trattare con i singoli Paesi ponendoli di fronte ad una scelta secca: o nella sostanza accettate i dazi oppure aumentate le spese per la difesa militare della Nato.

Nello stesso tempo Miran si pone il problema di come convincere le banche centrali di Cina, Giappone ed Europa a vendere le riserve di dollari in eccesso da esse possedute comprando sui mercati le rispettive valute nazionali. Per questa via il dollaro dovrebbe perdere valore e quindi ne trarrebbe profitto la competitività delle merci statunitensi. Non facile, come è evidente, soprattutto tenuto conto delle elevatissime riserve in dollari della Cina. Non solo, ma come evitare che la forte vendita dei titoli Usa (i Treasury) possa provocare una corsa alla liquidazione di attività in dollari, quindi un rialzo dei rendimenti, ottenendo un effetto collaterale del tutto indesiderato (viste le pressioni di Trump sulla Fed su questo tema) e cioè che i tassi di interesse salgono anziché scendere? C’è un altro coniglio nel capace cappello di Miran pronto ad essere estratto: i cosiddetti titoli Matusalem. Ovvero le banche centrali verrebbero incoraggiate a scambiare titoli a breve termine con quelli a lunghissima scadenza, fino a 100 anni, garantendo al contempo alle banche di approvvigionarsi della liquidità a loro necessaria senza essere costrette a vendere i bond in perdita. 8

Questo è dunque il disegno e questo il piano di attuazione. Non siamo quindi di fronte ad atti di sconsiderata follia. Ma ciò non significa che non creino contraddizioni o che siano imbattibili. Certamente ci vorrebbe ben altra consapevolezza e altro spirito di quelli messi in campo qui da noi e in Europa. Mi riferisco sia ai propositi dei vari governi, sia a quanto è emerso a livello Ue. La strategia dei contro dazi rischia di essere facilmente schiacciata dalla logica della trattativa con ogni singolo paese da parte degli Usa e dal maneggio alternato del bastone e della carota. Oggi più che mai l’indipendenza dell’Europa dal disegno di Trump di riconquistare ciò che l’America sta perdendo, ovvero il ruolo di baricentro dell’economia e della politica mondiale, il famoso “secolo americano”, risiede nello spezzare il sistema di guerra, così consustanziale, come abbiamo visto, al disegno economico e politico degli Usa, quindi farsi portatrice di un progetto di pace che in primo luogo si opponga al riarmo, alla cosiddetta difesa comune, ai progetti di un esercito europeo. Nello stesso tempo la via di uscita è quella di volgersi dal punto di vista commerciale ed economico verso i Brics, verso i paesi del Global South, attuando accordi su basi paritarie. Un percorso che va compiuto contemporaneamente. Difficilissimo, lo so. Ma ogni altra strada è preclusa o porta alla rovina. Almeno cominciamo a muovere i primi passi in questa direzione.

Alfonso Gianni

 

  1. “Trumponomics would not be as bad as most expect. Opposition would come from all angles” The Economist, 11 luglio 2024[]
  2. Si veda Renato Mannheimer “Crolla la fiducia verso Trump. Si amplia anche la frattura fra l’Europa e gli Stati Uniti” in ItaliaOggi, 8 aprile 2025[]
  3. Il Sole 24 Ore del 9 aprile 2025 sintetizza così la situazione nel titolo a cinque colonne di prima pagina: “Borse nel caos, crollano Europa e Asia, Wall Street sull’ottovolante, oro in caduta”[]
  4. Matthew C. Klein, Michael Pettis Le guerre commerciali sono guerre di classe. Come la crescente diseguaglianza corrompe l’economia globale e minaccia la pace internazionale, Einuadi, Torino 2021[]
  5. Vedi Eugenio Occorsio “E’ come una guerra che tutti perderanno” intervista a Jeffrey Sachs, in Affari&Finanza del 7 aprile 2025[]
  6. Una trattazione più estesa di questi aspetti della politica di Trump è contenuta nel mio editoriale “Il nichilismo di Trump” in Alternative per il Socialismo n.75, Castelvecchi, Roma pp. 326, che è stato ospitato in questo stesso blog la scorsa settimana[]
  7. Il testo in inglese è reperibile al link: https://www.hudsonbaycapital.com/documents/FG/hudsonbay/research/638199_A_Users_Guide_to_Restructuring_the_Global_Trading_System.pdf[]
  8. Si veda anche, su questi ultimi temi, Luigi Pandolfi “Matusalem bond, i prestiti a 100 anni, l’arma letale per coprire il debito Usa” in il manifesto del 3 Aprile 2025[]

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