Come se non bastasse il piano di riarmo europeo, approvato ad aprile dalla Commissione Europea, che prevedeva una spesa di 800 miliardi da investire nel settore della difesa e nell’industria degli armamenti, ci ha pensato il vertice Nato, tenutosi in questi giorni a L’Aja, a chiarire il futuro che ci attende. Gli Stati membri dell’alleanza militare hanno accettato – con la lodevole eccezione della Spagna- il diktat imposto dalla nuova amministrazione Usa di destinare il 5% del Pil alle spese per la difesa e agli investimenti sugli armamenti.
Poiché fioccheranno nei media mainstream le analisi volte ad anestetizzare l’impatto di queste scelte, serve fare un po’ di chiarezza. Soprattutto dopo che la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha definito tale scelta «necessaria e sostenibile». Iniziamo col dire che non c’era nessun obbligo derivante dall’adesione alla Nato nell’accettare tale misura: è una scelta politica, rispetto alla quale la Nato ha posto la necessità di raggiungere un certo livello di capacità militare e ha identificato questo livello con una destinazione di risorse per ciascun Paese pari al 5% del Pil. L’adesione a questo percorso è dunque una scelta e, come tale, i governi che la compiono se ne assumono interamente la responsabilità. Sempre nell’ottica di fare adeguata informazione, specifichiamo che nel 5% deciso in Olanda, vi sono due voci.
La prima, pari all’1,5%, riguarda il tema generale della sicurezza e quindi vi possono essere inseriti tutti gli investimenti nelle infrastrutture (strade, ferrovie, porti etc.) già fatti a prescindere. La seconda riguarda le vere e proprie spese militari, rispetto alle quali i membri della Nato si sono impegnati a portare le risorse dedicate al 3,5% del Pil. Solo per fare l’esempio dell’Italia, significa che le spese militari in senso stretto, oggi pari all’1,57% del Pil, dovranno essere moltiplicate. E’ necessario, come afferma l’ineffabile Giorgia Meloni? Anche senza rivendicare – come noi da sempre auspichiamo- il cambio di paradigma verso il disarmo come unica scelta politica razionale, non vi è alcuna necessità di un aumento mostruoso dell’attuale spesa militare.
Il continente europeo è già oggi -prima del piano ReArm Europe e prima della destinazione del 5% del Pil deciso in sede Nato- l’area più armata del pianeta, con un aumento esponenziale delle spese che prosegue da anni. E’ sostenibile, come afferma l’indicibile Giorgia Meloni? Sicuramente sì, se abbiamo in mente gli utili in Borsa dei grandi fondi finanziari statunitensi e delle grandi fabbriche d’armi; sicuramente no, se abbiamo in mente la dignità della vita delle persone, la coesione sociale, la tenuta sempre più flebile del sistema di welfare.
Perché al di là di quello che racconteranno i media per far ingoiare la pillola, si tratta di mettere in campo 40 miliardi/anno per i prossimi dieci anni. Stante la sussistenza del patto di stabilità -che casomai può essere derogato solo per le spese in armamenti- è evidente a tutti dove verranno sottratte le risorse previste: sanità, istruzione, spesa sociale, transizione ecologica. Come ha detto chiaramente nei giorni scorsi il Fondo Monetario Internazionale, come ha ammonito sempre nei giorni scorsi la Corte dei Conti.
Ci stanno dicendo che l’unico futuro è la penetrazione della guerra nell’economia, nella società, nella cultura, nella democrazia. Vogliono con questo perpetuare un sistema totalmente insostenibile. Serve una ribellione sociale, e la grande manifestazione del 21 giugno scorso ne ha segnato un primo importante passo. Ora serve un salto di qualità nel coinvolgimento dell’intera società in quella che sarà sempre più una lotta fra la guerra e il futuro, fra la Borsa e la vita. Sarà un autunno caldo, non solo dal punto di vista climatico.