Fa scandalo la richiesta del governo italiano di portare il rapporto deficit/pil al 2,4% e così si alimenta una campagna mediatica – a destra come a sinistra – che ha in realtà il vero obiettivo di spianare la strada alla speculazione finanziaria. In base ai nudi dati economici, l’Italia non è affatto a rischio di insolvenza. All’elevato debito pubblico, infatti, fa da contraltare uno dei più bassi valori del debito delle famiglie e delle imprese. Se poi aggiungiamo il surplus commerciale (che è superiore allo stesso deficit pubblico del 2,4%), l’allarme lanciato è solo giustificabile sul piano politico e ideologico e non economico.
Dovrebbe invece fare scandalo che negli ultimi 25 anni sono state promosse politiche fiscali che hanno ridotto le imposte per le società di capitale e le aliquote sui redditi più alti, aumentato le aliquote sui redditi più bassi, ridotto fortemente la progressività, a vantaggio della rendita finanziarie e dei più ricchi, Tali misure hanno sottratto ingenti risorse al bilancio dello stato favorendo, insieme alla spese per interessi, l’aumento del debito pubblico.
Dovrebbe fare ancor più scandalo che a fronte di questa situazione, uno dei cavalli di battaglia di questo governo, sia la “flat tax”.
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Due sono le principali accuse che la troika economica e le agenzie di rating (entrambe espressione degli interessi dell’oligarchia finanziaria internazionale) rivolgono alla proposta di legge di stabilità del governo italiano.
La prima ha a che fare con la scelta di portare al 2,4% il rapporto deficit/Pil, ben sopra al limite (1,6%) ufficiosamente pattuito dalle precedenti leggi di stabilità dei governi Renzi-Gentiloni (che, a fine 2017, è arrivato al 2,3% nel silenzio generale) ma ben al di sotto del limite ufficiale sancito dagli accordi del 1997 che è pari al 3%.
La seconda è che tale obiettivo, comunque, difficilmente potrà essere ottenuto perché le stime di crescita del Pil effettuate dal governo, a seguito della manovra economica (+0,5%), sono considerate sovrastimate.
In questa breve nota, ci limitiamo per il momento a discutere del primo punto.
La situazione debitoria europea
La fragilità economica di un paese è certamente legata anche al livello del suo indebitamento. Ma correttezza vuole che si faccia riferimento al debito complessivo di tutti gli agenti economici che operano nel sistema economico (non solo lo Stato, ma anche le famiglie, le imprese e le banche).
Se prendiamo in esame il debito complessivo in rapporto al Pil, abbiamo qualche sorpresa. Secondo una recente survey del McKinsey Global Institute, sulla base dei dati della Bank for International Settlements (Banca dei regolamenti internazionali) riferiti al 2017, il paese più indebitato al mondo risulta essere il Lussemburgo per un ammontare pari al 434% del Pil, seguito da Hong Kong (396%), terzo il Giappone (373%). Con riferimento alle nazioni europee, quelle più indebitate sono l’Irlanda e il Belgio (345%), seguite da Portogallo (322%), Francia (304%), Olanda e Grecia (entrambe al 294%), Norvegia, 287%, Gran Bretagna (281%), Svezia e Spagna (275%). L’Italia (265%) si colloca nelle retrovie, con un valore di poco superiore alla Danimarca, Finlandia, Svizzera, Austria e Germania.
Se disaggreghiamo tale dato, l’Italia ha il 151% di debito pubblico (seconda in Europa – dopo la Grecia, e terza al mondo, con il Giappone che detiene il primato di paese con lo Stato più indebitato: 214%). Ma si trova negli ultimi posti in classifica per debito delle famiglie (41%, contro il 127% della Svizzera, il 117% della Danimarca, il 107% dell’Olanda, il 102% della Norvegia, l’87% della Gran Bretagna). Meglio dell’Italia è solo la Polonia (36%). Con riferimento al debito delle imprese, anche in questo caso la situazione italiana è tra le più virtuose. Lussemburgo, Irlanda, Belgio, Norvegia, Svezia, Francia, Portogallo, Spagna presentano valori doppi rispetto all’Italia e solo Grecia e Germania si trovano in una situazione migliore (seppur di poco).
La solvibilità complessiva dell’Italia non può quindi essere messa in discussione, anche tenendo conto che la quota di debito pubblico detenuta da operatori economici italiani è oggi salita al 68,7%, grazie soprattutto all’incremento dal 5% al 16% effettuata dalla Banca d’Italia grazie al Quantitative Easing della Bce. Occorre notare che il 26% del debito pubblico italiano è, inoltre, detenuto da banche prevalentemente italiane e il 18% è invece detenuto da fondi finanziari e assicurativi, prevalentemente stranieri, quelli più interessati a avviare attività speculative. I piccoli risparmiatori ne detengono solo il 5%.
Per completezza d’analisi, alla situazione debitoria nazionale occorre aggiungere l’eventuale indebitamento estero. Come è noto, l’Italia è il secondo paese, dopo la Germania, a vantare il surplus della bilancia commerciale più elevato d’Europa. I dati relativi a fine 2017 (Fonte: Eurostat), ci dicono che l’avanzo commerciale italiano ha raggiunto la cifra di 47,5 miliardi (pari al 2,8% del Pil), derivante da un surplus di 8,3 miliardi con i paesi della UE e di 39,2 con quelli extra-UE[1].
Di fatto il surplus dei conti con l’estero sarebbe in grado di ripagare più che abbondantemente il deficit interno. La Germania ha maturato un surplus commerciale di 249 miliardi pari al 7,6% del Pil. Ricordiamo che all’interno del patto di stabilità europeo, oltre ai vincoli sul rapporto deficit/pil, occorre prendere in considerazione il limite massimo di avanzo commerciale di un paese membro, che non può superare il 6%. Di fatto, l’unico paese che del corso del 2017 ha compiuto un’infrazione al Patto di Stabilità è stata la Germania ed è prevedibile che tale limite del 6% verrà superato anche nel corso del 2018. E’ infatti da più di 5 anni che la Germania supera tale limite. Ma nessun commissario europeo sembra accorgersene.
Di converso, la Francia presenta un deficit commerciale di circa 80 miliardi e la Gran Bretagna addirittura di 176,2 miliardi.
Di fronte a questo quadro, l’accanimento contro il solo debito pubblico per contestare le scelte di politica economica non ha una ragione strettamente economica ma esclusivamente politica e ideologica. Si tratta di impedire che un paese membro possa adottare una politica espansiva basata sul deficit spending in grado, potenzialmente, di evitare lo smantellamento del welfare e la finanziarizzazione privata dei servizi sociali, a partire dalla sanità e dall’istruzione (visto che la previdenza è stata già di fatto finanziarizzata).
Ciò che è in gioco non è l’autonomia economica dell’Italia, come la retorica nazional-sovranista vorrebbe farci credere. Se anche ritornassero la lira o un’Europa di singoli stati sovrani sul piano monetario, la configurazione geopolitica internazionale basata sul confronto tra l’asse boreale Trump-Putin (che vedrebbero con favore la scomparsa dell’Europa) e l’asse australe Cina-India-Sud Africa-Brasile, renderebbero i singoli paesi europei ancor più deboli e in balia delle oligarchie economico-finanziarie.
A chi conviene il debito italiano?
Forse non tutti sanno che a partire dal 1992, con l’unica eccezione del 2009, il saldo primario del bilancio dello Stato (ovvero la differenza tra le entrate e le uscite complessive, al netto della spesa per interesse) è sempre stato abbondantemente positivo. In questi anni, dal 1992 al 2017, lo Stato ha prodotto un risparmio pari a 795 miliardi. Negli ultimi 25 anni, l’ammontare delle spese per interessi ha, invece, raggiunto una cifra pari a 2094 miliardi. Di conseguenza il debito pubblico italiano è cresciuto di 1.299 miliardi.
Appare quindi evidente che la principale causa dell’aumento del debito pubblico italiano dipende dalla spesa per interessi, la cui dinamica negli ultimi anni è stata sempre più condizionata dalla speculazione finanziaria.
Approfondiamo questo aspetto, utilizzando i dati del rapporto del Comitato per l’abolizione dei debiti illegittimi (CADTM) che verrà presentato alla stampa il prossimo 27 ottobre 2018, a Roma[2].
Tre sono state le fasi in cui l’Italia è stato oggetto di attacchi speculativi.
Il primo è il biennio 1992-93 con la crisi valutaria della lira, che ha portato, sul piano sociale, all’abolizione della scala mobile e alla draconiana manovra finanziaria del governo Amato. Nonostante questi interventi (aumento della pressione fiscali in senso non progressivo, smantellamento di parte del servizio pubblico che porterà alla riforma previdenziale del 1996 e alla privatizzazione dell’acqua, dell’energia, del trasporto e delle comunicazioni, riduzione del costo del lavoro e inizio della sua fase di precarizzazione), il rapporto debito pubblico è passato dal 101,6% del 1991 al 111,3% del 1993 e al 127,3% del 1994. Come ricordato è proprio nel 1992 che si realizzerà per la prima volta dagli anni Settanta un avanzo primario positivo che nell’arco del triennio ammonterà a 56,52 miliardi di euro. Di contro, la spesa per interessi ammontò a 303,27 miliardi (con un incremento del 62,7% rispetto al triennio precedente).
Il secondo attacco coincide con l’avvio della crisi dei subprime del 2007-8: il rapporto deficit/Pil passa dal 99,34% del 2007 al 112,2% del 2009, l’unico anno in cui si registra anche un disavanzo primario (al netto degli interessi), con il IV governo Berlusconi. La spesa per interessi risulta pari nel triennio a 229,2 miliardi di euro.
Occorre ricordare che l’entrata nell’euro aveva, invece, prodotto una diminuzione del rapporto debito/Pil dal 109,1% del 2000 al 105,9% del 2002, grazie soprattutto al calo dei tassi d’interesse.
Pochi anni dopo, arriva il terzo attacco, quello forse più pesante, con lo spread che nel 2011 arriva a quota 575. La crisi aveva portato alla caduta del governo Berlusconi e all’arrivo del governo Monti. L’attacco si fermò quando la Deutsche Bank, che aveva iniziato a febbraio del 2011 la vendita della quota di titoli di Stato in suo possesso per speculare sui derivati italiani, decise a novembre di quell’anno di ricominciare ad acquistarli di nuovo, dopo aver capitalizzato ingenti guadagni.
Nel 2011 e 2012, l’esborso dello Stato per la spese in interessi arriva a toccare i 160 miliardi.
Se sommiamo questi episodi, ricaviamo che la speculazione finanziaria è costata allo Stato italiano (e quindi a noi) la bellezza di 467,3 miliardi, ovvero il 20,6% dell’intero debito pubblico del 2017.
E’ una cifra che è andata a ingrassare la pancia delle multinazionali della finanza e delle banche e solo in minima parte i risparmiatori italiani, che detengono, come già abbiamo ricordato, solo il 5% del debito complessivo. A tale rendita occorre poi aggiungere le plusvalenze maturate sulla dinamica dei derivati sui titoli di stato, che, nel caso del 2011, hanno consentito guadagni di oltre il 500% in pochi mesi.
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Analizziamo ora le entrate fiscali. Esse sono composte da tre grandi voci: le imposte dirette (pari nel 2016 al 35%), le imposte indirette (34%), i contributi sociali (31%).
Gli introiti delle imposte dirette derivano nel 2017 per il 58,1% dai redditi da lavoro (salari e pensioni), per il 21,7% dai redditi di impresa (partecipazioni e utili), per il 7,3% dai redditi da capitali (interessi e dividendi), per il 2,6% da redditi fondiari (affitto) e per il 7% da redditi patrimoniali[3]. Ciascuno di questi cespiti è soggetto a una tassazione separata. I redditi da lavori sono soggetti alla progressività delle aliquote. I redditi da imprese solo in parte. Ad esempio le società di capitali pagano un’Ires pari all’aliquota unica del 24%. Lo stesso vale per gli affitti (imposta unica del 21%), per gli interessi sui depositi bancari (26%) e sui titoli di stato (12,5%).
Ne consegue che chi gode di un reddito derivante non solo dal lavoro ma anche da altre attività (affitto, interessi, ecc,) vede ridursi la propria progressività in un contesto di elevati redditi cumulati, con un trattamento a lui/lei più favorevole.
Inoltre negli ultimi anni, le varie riforme fiscali hanno di gran lunga ridotto non solo la progressività delle aliquote sull’Irpef ma anche le aliquote uniche di alcuni redditi. E’ il caso dei redditi di impresa: fino al 1995 quelli realizzati da società di capitali erano tassati al 37%. Poi è cominciato un lento declino fino a raggiungere il 24% nel 2017 con il governo Renzi.
Quando fu introdotta l’Irpef come unica tassa sui redditi di lavoro e di persone nel 1974 (riforma Visentini), gli scaglioni di aliquote erano più di 20, con valori che partivano dal 10% (per i redditi più bassi) sino ad un massimo del 72% (per i redditi superiori ai 300.000 euro l’anno). A partire dalla prima riforma del 1983 sino all’ultima del 2007, tale ventaglio di aliquote è stato drasticamente ridotto sino alle 5 attuali: 23% per i redditi sino a 15 mila euro, 27% tra i 15 mila e i 28 mila, 38% tra i 28 mila e i 55 mila, 41% dai 55 mila ai 75 mila e 43% oltre i 75 mila. Non solo sono state diminuite le aliquote sui redditi più alti e aumentate quelle sui redditi più bassi ma anche la curva della progressività è diventata sempre più elastica, concentrandosi prevalentemente sui redditi medio-bassi, quelli dello scaglione di imponibili lordo (il netto è circa un terzo inferiore) tra i 28 mila e i 55 mila.
Ne è conseguito che:
“In virtù delle riforme fiscali operate dal 1983 al 2007, i super ricchi, quelli con redditi superiori a 600.000 euro, nel solo 2016 hanno goduto di un regalo fiscale pari a 1 miliardo di euro. Considerato che il loro numero non va oltre le 10.000 persone, ognuno di loro ha potuto accrescere il proprio patrimonio di 100.000 euro” [4]
Se si considera il mancato gettito dovuto alla ridotta progressività delle riforme fiscali e al mancato cumulo,
“otteniamo una perdita per lo Stato, nel [solo] 2116, di 8,3 miliardi di euro, pari al 4,5% del gettito Irpef”[5]
Applicando lo stesso calcolo agli ultimi 34 anni (dal 1974 ad oggi), il mancato gettito complessivo ammonta a 146 miliardi. Tale ammanco di entrate è stato colmato dall’emissione di titoli di Stato che, in virtù degli interessi composti, hanno prodotto un maggior debito pari a 295 miliardi, il 13% di tutto il debito accumulato. Un favore alle classi più ricche che è stato assai costoso per tutta la collettività!
Per una maggior completezza di analisi, dobbiamo anche aggiungere il fenomeno dell’evasione e dell’elusione fiscale, che, secondo le stime pubblicate nel maggio 2017, è stata per il 2014 di 110 miliardi di cui 11 evasi sotto forma di contributi sociali, 36 come IVA e 63 come imposte dirette.
Quali conclusioni?
La veloce e incompleta panoramica ci porta ad alcune preliminari conclusioni:
- L’Italia non si trova in una situazione di rischio di insolvenza, come gli allarmismi del gotha finanziario vogliono far credere. La campagna mediatica, orchestrata anche da alcuni siti di informazione compiacenti (a destra come a sinistra), ha come scopo principale attivare campagne speculative, assai lucrose per chi detiene il controllo dei flussi finanziari;
- Il debito pubblico italiano è stato causato dall’incremento della spesa per interessi (a seguito delle campagne speculative) e da riforme fiscali che hanno favorito un poderoso trasferimento di risorse dalle fasce più povere della popolazioni a quelle più ricche. E’ quindi del tutto falsa la narrazione dominante che associa la crescita del debito pubblico all’aumento della spesa pubblica, soprattutto nel periodo degli anni ’80 del secolo scorso, quando passò dal 60% a oltre il 120%. Eppure, come correttamente scrive Marco Bersani: “i dati ufficiali sulla spesa pubblica di quel decennio raccontano un’altra verità: infatti, al netto della spesa per interessi, la spesa pubblica italiana è passata dal 42,1% del Pil nel 1984 al 42,9% nel 1994, mentre, nello stesso periodo, la media europea vedeva un aumento dal 45,5% al 46,6% e quella dell’eurozona dal 46,7% al 47,7%. Ovvero, sia in percentuale assoluta, sia in percentuale di aumento relativo, la spesa pubblica italiana si è costantemente posizionata a livelli inferiori rispetto al resto dell’Ue e dell’eurozona”.
- Il debito pubblico è così un”business”: favorisce la rendita finanziaria e coloro che sono già i più ricchi.
- L’attuale proposta di manovra finanziaria con l’enfasi sulla “flat tax” non fa altro che contribuire ad alimentare tale business. Solo il ripristino di una tassazione unica per tutti i cespiti di reddito e il ritorno ad una più elevata progressività delle imposte possono contribuire non solo ad una maggiore equità fiscale ma anche a ridurre il debito pubblico.
Note
[1]Occorre sottolineare che, in particolare, la posizione dell’Italia nei confronti della Germania è caratterizzata da esportazioni di beni intermedi e importazioni di beni strumentali ad alto valore aggiunto. Ciò si configura come un vincolo tecnologico che spiega il gap di produttività maturato nei confronti dei Paesi-core europei. Ringrazio Stefano Lucarelli per questa preziosa osservazione.
[2]Ringraziamo Attac e Marco Bersani per l’accesso ai dati.
[3]La somma non è pari al 100% perché mancano alcune voci minori del tutto marginali.