Dopo sei mesi di discussione e 61 audizioni le commissioni Finanze della Camera e del Senato lo scorso 30 giugno hanno reso noto al governo il documento conclusivo di indirizzo politico per la predisposizione della legge delega sulla riforma fiscale che l’Esecutivo si è impegnato a presentare entro la fine di luglio dell’anno in corso. Il documento è passato a larga maggioranza con la sola astensione di Leu, purtroppo, e naturalmente il voto contrario di Fratelli d’Italia.
Ma ad un consenso parlamentare così largo non sembra corrispondere un uguale entusiasmo da parte della stampa specializzata. Nel più favorevole dei casi si osserva che il progetto si inserisce nelle tradizione delle riforme soft all’italiana, che non toccano minimamente il sistema preesistente, anzi trattano la materia in modo conservativo.
Si potrebbe dire che la montagna ha partorito il topolino. Ma in questo caso abbiamo qualcosa di peggio. Il documento parlamentare non lo nasconde e nelle prime righe fa sapere che i suoi obiettivi sono “stimolare l’incremento del tasso di crescita potenziale dell’economia italiana e rendere il sistema fiscale più semplice e certo”. La giustizia fiscale non rientra tra le preoccupazioni degli estensori, quindi nulla si dice della necessità prioritaria di ristabilire il principio costituzionale della progressività, svuotato da anni di leggi e leggine sotto la spinta delle varie lobbies.
Viene confermato il regime forfettario, quindi una flat tax, per gli autonomi con ricavi inferiori ai 65mila euro annui, mentre si auspica che venga ridotta l’aliquota sui redditi da capitale, ora al 26%, a un livello “prossimo all’aliquota applicata al primo scaglione Irpef”.
Su questa imposta converge tutta l’attenzione del documento, che suggerisce il mantenimento della struttura a scaglioni delle aliquote – liquidando l’ipotesi di un passaggio alla progressività continua come nel sistema tedesco – e auspica fortemente di salvare la “classe media” – punto di riferimento sociale di tutta l’operazione, riducendo la pressione fiscale tra i 28mila e i 55mila euro. Si chiede l’abrogazione dell’Irap e una semplificazione dell’Iva, mentre non si affronta il tema dell’erosione della base imponibile Irpef benché sollevato in quasi tutte le audizioni.
È evidente che in questo quadro non ci poteva essere né una tassa di successione né la patrimoniale, benché quest’ultima avesse fatto capolino in una prima bozza. Quindi silenzio totale sulla riforma del catasto. Il tutto è stato accolto con grande gioia di Salvini e non stupisce. I critici più teneri si augurano che poi il governo intervenga migliorando quanto il Parlamento gli ha consegnato. Ma è inutile coltivare simili illusioni. Aggrapparsi a una logica puramente emendativa assicura una sconfitta certa. Da questo quadro politico, malgrado che a livello internazionale di discuta di tassare le multinazionali, non può che arrivare il peggio specialmente su materie, come quella fiscale, che toccano direttamente la struttura di classe del paese.
Intanto le diseguaglianze prosperano a dismisura. Non solo da noi e in Europa, ma anche negli States, come rivela la Fed in un recentissimo rapporto su Wall Street, dove l’1% ha il 53% dei capitali e i bianchi – le differenze di reddito si mischiano e si aggravano con quelle etniche – detengono circa l’83% degli asset totali. Secondo calcoli di vari e attendibili economisti, la distribuzione della ricchezza è stata meno sbilanciata in Europa, ma anche qui si procede con rapidi passi in quella direzione: la quota di reddito totale fatta propria dal 10% con il reddito più alto è passata da meno il 30% negli anni 80 ad oltre il 35% ai giorni nostri.
In Italia l’1% possiede il 25% della ricchezza complessiva, mentre il 60% più povero se la deve cavare con il 15%. In più nel nostro paese la ricchezza ha un tasso di patrimonializzazione più elevato che nel resto del contesto europeo. Non si potrà mai incidere su questo stato di cose, se non contribuendo a creare un movimento reale che faccia della giustizia fiscale e redistributiva uno dei suoi punti qualificanti, entro cui collocare la rivendicazione di una tassazione dei patrimoni.
Per tutte queste ragioni abbiamo firmato e invitiamo a farlo la Proposta di legge di iniziativa popolare, avanzata da Sinistra Italiana, sulla “Istituzione di un’imposta ordinaria sostitutiva sui grandi patrimoni”, la cui base imponibile è costituita da una ricchezza netta superiore a 500.000 euro, modulata secondo criteri di progressività fino a giungere all’aliquota del 2% per valori superiori a 50 milioni di euro, che per l’anno 2022 e per una base imponibile superiore a un miliardo di euro deve arrivare al 3% per fare fronte alle esigenze della ricostruzione postpandemica. Si può discutere all’infinito sulle cifre, se troppo o troppo poco. Quel che conta è rompere il muro dell’ingiustizia fiscale. Come dice Thomas Piketty: “Il sistema fiscale di una società giusta si dovrebbe basare su tre grandi imposte progressive: sulla proprietà, sulle successioni, sul reddito”.