Come previsto, il Senato ha detto sì. L’ex ministro dell’Interno, Matteo Salvini, dovrà essere processato, come avviene per qualsiasi cittadino che venga accusato dalla magistratura di aver commesso un reato. Il che non significa essere colpevole, è ovvio. Solo che a stabilirlo deve essere un tribunale e non certo dei parlamentari. Una decisione sacrosanta, che andava già assunta in occasione del caso Diciotti, quando l’allora ministro dell’Interno riuscì però ad ottenere il salvataggio dagli ex alleati dei 5 stelle. Anche questa volta, come in quell’occasione, il leader della Lega è passato dalla fase del coraggio, dell’uomo forte pronto a farsi processare e andare perfino in galera, alla fase del piagnisteo e della paura, sintetizzati in quel dietrofront del suo partito sull’iniziale intenzione di voto per il sì al processo.
Questa volta la strategia “elettorale” non ha pagato, dimostrando che l’ex ministro è in un momento di confusione che, secondo i sondaggi, lo sta portando a perdere consensi, anche se il suo rimane ancora il primo partito. Nessuno, naturalmente, auspica la galera o ritiene di fermare il sovranismo con le sentenze o con i processi. La politica andrebbe sconfitta innanzitutto dalla politica. In questo caso, semplicemente vale il principio imprescindibile dell’uguaglianza di tutti davanti alla legge. Chi è accusato di aver commesso un reato, è giusto che si lasci processare e si difenda nel processo, come è suo diritto. Nel processo, appunto, e non dal processo. Chi ha spessore politico, chi crede nella correttezza delle proprie azioni dovrebbe mostrare la serenità della propria morale e non rifugiarsi in un vittimismo che mira ad avere la compassione del popolo o ad aizzarne gli istinti peggiori.
Peraltro, tirare fuori il garantismo è fuori luogo, perché il processo non è una sentenza di condanna e prevede tutte le garanzie del caso. Oltre a ciò, ma questa è solo una annotazione, fa sorridere che l’uomo che dava dello spacciatore a un minorenne solo basandosi sul sentito dire di un’anziana signora o che accusava pubblicamente le ong o l’ex sindaco di Riace sulla base di indagini ancora in corso, oggi predichi garantismo. La stessa cosa vale per i suoi sodali di partito e per i suoi alleati che urlano al complotto o alla deriva giustizialista. Ciò detto, chiuso il capitolo dei tormenti giudiziari di Salvini, bisogna rivolgersi anche all’altra parte politica, ossia a chi di Salvini oggi è avversario. In queste stesse ore, infatti, una inchiesta di Nello Scavo su Avvenire (leggi qui) ha reso pubblica la bozza del nuovo Memorandum tra Italia e Libia. Si tratta di quel patto che l’Italia ha stipulato con una parte della Libia, ossia il governo provvisorio di Al Sarraj, per “gestire” i flussi migratori che, passando dal paese nordafricano, si spostano verso l’Europa.
Un accordo che è stato rinnovato nonostante le polemiche relative alle gravissime violazioni dei diritti umani nell’inferno libico, luogo di lager, torture, stupri, esecuzioni sommarie, violenze, umiliazioni, compravendita di esseri umani. La bozza, presentata dall’attuale governo, va nella stessa direzione del passato, cercando timidamente di introdurre alcuni elementi a tutela dei diritti, elementi piuttosto deboli e, come il tempo ha già dimostrato, inefficaci. Un concentrato di ipocrisia, dentro la quale l’immigrazione non è mai vista come un dramma che colpisce esseri umani vittime di un traffico disumano, ma è spesso accompagnata da termini negativi. L’ipocrisia sta nel cercare, ad esempio, di non usare la parola “problema”, preferendo altre come “fenomeno” o “questione”, ma poi associando l’immigrazione sempre e comunque a concetti come contrasto o argine.
Insomma, i migranti alla fine smettono di essere riconoscibili come i soggetti che subiscono, ma sono perennemente agganciati alla parola irregolari, che li rende in qualche modo colpevoli di aver provato a scappare, a salvarsi la vita, a inseguire un futuro migliore. Le parole sono importanti. Le parole sono macigni e, davanti alle letture critiche, riescono a svelare molto di più della loro facciata. Come quando si parla di “rilascio di donne, bambini e altri individui più vulnerabili dai centri”, come se un giovane trentenne maschio avesse meno diritto a essere salvato da stupri, violenze, torture. Una vergogna linguistica che fa il paio con la violenza concettuale che questa frase esprime. Il Memorandum è un altro marchio sanguinoso sulla pelle dei disperati, il marchio di un coraggio che non c’è nell’affrontare il dramma dei migranti senza pensare a calcoli elettorali.
Un elemento di triste continuità nei fatti con quel passato che, a parole, si diceva di voler combattere o superare. Una continuità che si esprime anche nella mancata abrogazione di quei decreti sicurezza che sono stati il cavallo di battaglia proprio di Salvini. Lo stesso Salvini che viene giustamente attaccato per i suoi comportamenti, ma che poi non viene mai contrastato da comportamenti opposti e virtuosi. Perché non basta puntare il dito contro il nemico, se poi la tua mano somiglia alla sua. Se il tempo è scaduto per chi ha diffuso costantemente odio e disumanità, deve esserlo anche per chi ha fatto abuso di crudele ipocrisia.