L’intervento di giovedì in Senato di Matteo Renzi va letto – per valutarne la portata – insieme alle dichiarazioni pubbliche rese dallo stesso Renzi nei giorni precedenti. In esse si argomentava di invasione di campo, di vulnus per la politica, di avvertimento, di “quelli che hanno arrestato i miei genitori”, di prossime denunzie contro il procuratore capo di Firenze.
È dunque possibile pensare che Renzi abbia a cuore non tanto una questione istituzionale quanto piuttosto una vicenda “personale”. Per la quale il Senato (la prestigiosa Camera alta) non sembra la sede di dibattito più opportuna. Tanto più se si tratta di una requisitoria senza contraddittorio con toni e parole di tipo muscolar-bellicistico (coraggio contro pavidità, barbarie, retata, piazza, stato etico o etilico…), indirizzata non al servizio giustizia in generale, ma chiaramente a un ufficio giudiziario singolo.
Anche i richiami a Moro e Craxi sono apparsi non pertinenti, più uscite ad effetto che altro. La frase di Moro, “non ci lasceremo processare nelle piazze” non era certo riferita alla magistratura e men che meno a qualche giudice in particolare. Quanto a Craxi (a parte che rifarsi, in Senato, a un personaggio notoriamente condannato non sembra la scelta più felice), citare il suo “orrore del vuoto politico” per teorizzare la debolezza della politica, non basta per dimenticare che il vero nodo del problema sta nella “novità” rappresentata dalla Costituzione repubblicana. Prima di essa dominava la concezione dell’unità assoluta del potere e del primato in tale unità della politica, cui la giurisdizione era del tutto soggetta. Ora invece vige la separazione dei poteri senza supremazia di alcuno sugli altri, per cui la giurisdizione è diventata autonoma e indipendente. Non è quindi problema di vuoti o di pieni, ma di reciproco rispetto nel riconoscimento a ciascuno delle proprie competenze. Senza delegittimazioni fondate su pregiudizi ostili anche di carattere “personale”. Tornando poi ai “processi in piazza”, non ho memoria di magistrati che ne abbiano fatti, ma solo di magistrati che ne hanno subiti. Come nel caso della manifestazione avanti al Tribunale di Milano contro i giudici di un processo a carico di Berlusconi (presente tra l’altro anche la futura presidente del Senato) con schiere organizzate e affluite, appunto in piazza, quasi si fosse sul set del film di Moretti Il Caimano.
Renzi, per altro, non ha inventato nulla. Il tentativo di assoggettare la Giustizia alla politica, o meglio, all’interesse politico di una sola persona, l’ha ideato Berlusconi, scatenando contro vari uffici giudiziari – a partire dal 1994 – una “vera e propria guerra mossa su molteplici fronti e adoperando tutti i mezzi” (Andrea Camilleri). Questo malvezzo è poi diventato per molti politici una specie di riflesso condizionato, ogni volta che la magistratura si azzardi ad accertare, doverosamente, attività denunziate in quanto ipotizzabili come illegittime che riguardino gli interessi di certe cordate. L’attrazione fatale di evocare un contrasto fra magistratura e politica, come fossero fazioni nemiche contrapposte, è stata spesso irresistibile. Anche in campi diversi dalla politica. Per esempio in quei movimenti popolari che (in nome di principi e obiettivi di per sé rispettabilissimi) rifiutano poi con energia la giurisdizione, anche a fronte di forme di lotta che valicano ampiamente i confini della legalità.
Da tempo diffusa a vari livelli, in altre parole, è la tendenza a difendersi – come usa dire – non “nel” ma “dal” processo, cercando di gestirlo come momento di scontro funzionale a contestarne in radice la legittimità. Anche parlando, come ha fatto Renzi, di “giustizialismo peloso”, così indirettamente rivendicando per sé la qualifica di garantista, ma senza far troppo caso al fatto che il vero garantismo funziona come veicolo di eguaglianza, mentre non è di certo garantismo quello che vorrebbe strumentalmente depotenziare la magistratura o singole iniziative giudiziarie.
Da ultimo, attenzione a non innescare percorsi pericolosi. Se un uomo politico di primario livello (com’è Renzi, col peso che gli deriva dalle cariche ricoperte) parla in Senato di persecuzione giudiziaria o di parzialità dei giudici, in pratica autorizza ogni cittadino che abbia qualche problema con la giustizia a pensarla allo stesso modo. Con evidenti effetti devastanti sul sistema. E con riflessi sugli stessi politici, che finiscono per apparire propensi a richiedere “servizi” anziché decisioni imparziali. Con conseguente insofferenza (ci risiamo…) verso i magistrati indipendenti, gelosi di questa loro prerogativa costituzionale.