L’emergenza sanitaria ha prodotto un’alluvione di norme la cui ultima e corposa manifestazione è rappresentata dal “Decreto Rilancio”, con i suoi 262 articoli. Dato atto al Governo delle migliori intenzioni, bisogna ricordare che studiosi e operatori giuridici attestano che le leggi davvero importanti sono, invece, brevi e compatte, perché modificano i punti di principio e di snodo di un sistema normativo. Cerchiamo, allora, sul tema del lavoro, di indicare alcune proposte semplici su argomenti di grande rilievo ma trascurati dal decreto.
1) Proposta in tema di “lavoro nero”, antica piaga sociale cui il legislatore, pur intervenendo ripetutamente, non ha mai saputo porre rimedio, per un errore di impostazione e metodo: non ha compreso che l’unica tutela efficace può essere solo l’autotutela, che il lavoratore irregolare abbia un preciso e sicuro interesse a innescare lui stesso. Invece il legislatore ha sempre puntato su tutele “esterne”: la previsione di sanzioni economiche o penali, a carico del datore di lavoro, irrogate dall’ispettorato del lavoro; o di sanatorie con le quali il datore viene incentivato a “pentirsi” e a regolarizzare il rapporto lavorativo, a fronte del “perdono” delle illegittimità passate e relative sanzioni, salvo qualche contributo e costo minore. Né l’uno né l’altro strumento ha mai funzionato, per comprensibili motivi: la probabilità di esser “pizzicati” dall’ispettorato è minima, mentre gli illeciti vantaggi sono alti; lo stesso lavoratore “in nero” è spesso omertoso con il datore perché la “regolarizzazione” non gli garantisce di tenere il posto e teme di perderlo. Non meraviglia, dunque, il “flop” della sanatoria prevista dal decreto per il settore agricolo (“sanatoria Bellanova”).
La soluzione deve puntare invece sull’autotutela del lavoratore: una semplice norma che preveda che il lavoratore che abbia denunziato all’ispettorato o al giudice di essere occupato in nero, ottenendo la regolarizzazione, non possa essere licenziato per un successivo periodo di 4 anni, per motivo economico-produttivo.
Non è una novità eversiva, perché una norma del genere esiste per lo specifico caso di regolarizzazione di un lavoratore “falsa partita IVA”: è l’art. 54 del D. Lgs. n. 81/2015, che tuttavia prevede un periodo di illicenziabilità troppo breve, di un solo anno (è pur sempre una norma del Jobs Act!). È lampante che con la norma che suggeriamo il lavoratore “in nero” avrà tutto l’interesse a denunziare la sua condizione, perché, una volta regolarizzato, il datore dovrà o tenerlo al lavoro o pagargli quattro annualità di retribuzione. La proposta ha anche un alto livello di prevenzione: dare lavoro “in nero” diverrebbe pericoloso e lo stesso “lavoro nero” finirebbe con lo scomparire.
2) Una seconda proposta dovrebbe riguardare il regime degli appalti (e dei subappalti), tema di grande rilievo in tempi di sperato rilancio economico tramite la costruzione di grandi o piccole opere, private o pubbliche. È noto che si tratta di una materia divenuta (per colpa dell’art.29 della “Legge Biagi”) ad altissimo rischio di illegalità e di sfruttamento, perché ai dipendenti di appaltatori e subappaltatori sono per lo più applicati trattamenti economico-normativi peggiori di quelli che dovrebbe far carico alla stazione appaltante se procedesse direttamente ai lavori, con suoi dipendenti. Sono dilagati e dilagheranno appalti fasulli, di mera mano d’opera, spesso affidati a cooperative spurie, create dallo stesso committente o infiltrate dalla criminalità, al solo scopo di realizzare illegittimi risparmi sulla manodopera.
Basterebbe, però, un semplicissimo intervento di poche righe per risanare questa sorta di “fronte del porto”: basterebbe, cioè, stabilire un principio di parità di trattamento tra i dipendenti dell’appaltatore o subappaltatore e quelli del committente, e la responsabilità solidale del committente verso i dipendenti dell’appaltatore o subappaltatore per l’effettiva fruizione di detto trattamento. Produrrebbe una benefica selezione automatica tra appalti: quelli “speculativi” non avrebbero più ragione di esistere perché non vi sarebbe più differenza nel costo del lavoro, e resterebbero solo quelli giustificati dalla specializzazione organizzativa e tecnologica della ditta appaltatrice. Una norma del genere è già esistita nel nostro ordinamento (art.3 Legge 1369/1960) e ha dato ottima prova per quarant’anni, ma l’ondata neo-liberista l’ha poi cancellata con i risultati di diffusissima illegalità che affliggono il mercato del lavoro.
3) Una terza proposta dovrebbe riguardare gli esuberi di personale, riferiti al momento in cui scadrà l’attuale “blocco” dei licenziamenti disposto per l’emergenza sanitaria. Poiché dare il “via libera” ai licenziamenti (si stimano in un milione) significherebbe innescare tensione sociale gravissima, essi vanno evitati promuovendo e imponendo la stipula di contratti di solidarietà difensiva, anche se di lunga durata, fino al momento in cui l’esubero venga riassorbito dal recupero dei livelli produttivi.
Sarà necessario riorganizzare gli ammortizzatori sociali e utilizzare i fondi europei “Sure” che sono ispirati al “Kurzarbeit”, versione tedesca, in sostanza, dei contratti di solidarietà difensiva. Recuperati i livelli produttivi, potrebbero essere trasformati in contratti di solidarietà espansiva, con aumento netto dell’occupazione, finanziata anche dal risparmio nell’erogazione degli assegni di reddito di cittadinanza già spettanti ai neo-assunti.