Il lavoro dopo il Covid: arretramenti e nuove potenzialità

di Alfonso Gianni - 06/09/2020
Le vicende di queste settimane, ove la scelta era obbligata, ha fatto scoprire le convenienze dello smart working, soprattutto dal punto di vista padronale, anche ove il padrone è lo Stato

Indubbiamente la pandemia ha contribuito in modo incisivo a riportare alla ribalta il tema del lavoro nei suoi molteplici aspetti. Improvvisamente nella nostra modernissima società, ove pareva che il lavoro materiale fosse semplicemente un residuo del passato, si è scoperto che senza di esso il paese non poteva stare in piedi. Solo che la cosa non ha provocato intenerimenti da parte del fronte padronale.

Anzi si è dovuto, particolarmente nel nord del paese, ricorrere a scioperi e ad agitazioni per sospendere seppure in parte il lavoro produttivo in settori peraltro di non stretta necessità rispetto alle esigenze che le misure antipandemiche sottoponevano. Così gli operai, quali figli di un dio minore, venivano sottoposti al massimo del rischio di contagio pur di assicurare una continuità della produzione che con tutta evidenza non era né indispensabile né strettamente utile alla società nel suo complesso, ma solo ad evitare l’interruzione della catena internazionale della formazione del valore e quindi al normale fluire dei profitti.

Solo in un secondo e tardivo tempo si sono pensate e messe in pratica misure parzialmente protettive delle condizioni e della continuità del rapporto di lavoro. Tra queste una delle principali, ovvero il blocco dei licenziamenti, è stato però sostanzialmente aggirato dal decreto governativo di agosto, il dl 104. Fino al 17 agosto è rimasto in vigore un blocco generalizzato valevole per tutte le tipologie di licenziamenti, collettivi e individuali, per motivi economici. Successivamente, in base alle norme contenute nell’articolo 14 del predetto decreto, il divieto è diventato, per usare un termine in voga, “flessibile”. Infatti vi sono tre casi nei quali il blocco non è più rispettato che sono espressamente previsti dalle norme, cui se ne possono aggiungere altri tre in base ad un’interpretazione estensiva delle stesse.

Se il testo non verrà modificato in sede di conversione, sono certamente esclusi dal divieto i licenziamenti “motivati dalla cessazione definitiva dell’attività dell’impresa, conseguenti alla messa in liquidazione della società senza continuazione, anche parziale, dell’attività”. Il secondo caso nel quale il divieto non è più operante è quello nel quale esiste un “accordo collettivo aziendale, stipulato dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale, di incentivo alla risoluzione del rapporto di lavoro, limitatamente – e mancherebbe pure altro! – ai lavoratori che aderiscono al predetto accordo”. Il terzo caso è rappresentato dai “licenziamenti intimati in caso di fallimento, quando non sia previsto l’esercizio provvisorio dell’impresa, ovvero ne sia disposta la cessazione”.

Ma la possibile casistica non si ferma qui. La Gazzetta Ufficiale era ancora fresca di stampa che interessati interpreti allargavano le già vistose falle aperte nel decreto. Secondo alcuni esegeti sarebbe possibile licenziare al termine della fruizione della cassa integrazione, cioè all’esaurimento delle 18 settimane previste. Secondo altri, aggiuntivamente, l’azienda che rinuncia alla Cig e opta per l’esonero contributivo fino a 4 mesi, potrebbe comodamente licenziare una volta conclusosi tale periodo. Infine viene coltivata una terza ipotesi, sempre in aggiunta alle precedenti, ovvero quella per cui l’azienda potrebbe ricorrere ai licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, non potendo utilizzare la sospensione dei lavoratori o la riduzione d’orario, avendo deciso di modificare in modo strutturale l’organizzazione aziendale chiudendo un ufficio o un reparto al quale sono addetti 4 dipendenti. Come si vede il blocco dei licenziamenti è così diventato peggio che un colabrodo e non c’è che augurarsi che la lotta sociale e l’impegno dei giuslavoristi faccia saltare queste norme esplicite o frutto di malevole interpretazioni.

Ma vi è un altro fronte di lotta che si è aperto prepotentemente in questa fase pandemica. E’ quello dello smart working che possiamo tradurre in “”lavoro agile”, anche per distinguerlo dalla più anziana tipologia del telelavoro. Il primo trova la sua fonte normativa nella legge 81/2017, il secondo ottiene la sua legittimazione dall’accordo interconfederale del 20 gennaio 2004 per ciò che concerne il settore privato, mentre per quello pubblico era già intervenuta la legge 1991/1988. La differenza tra le due tipologie, oltre al lasso di tempo non trascurabile che è passato tra le normative che le regolano, è dato essenzialmente dal fatto che il telelavoro, a differenza di quello “agile”, presuppone l’esistenza di una postazione fissa del lavoratore che viene trasferita dalla sede aziendale al suo domicilio o in altro luogo.

Il telelavoro appare tipico di una fase iniziale dell’informatizzazione, basato su inserimento dati o analoghe azioni ripetitive. Il lavoro agile non è invece caratterizzato dal luogo del suo svolgimento ma dalle modalità del medesimo. La differenza non è da poco, perché proprio qui si sviluppa la retorica, ma anche la lotta, sulla libertà d’azione del lavoratore. Da questo punto di vista siamo appena agli inizi di luna lunga storia. Le vicende di queste settimane, ove la scelta era obbligata, ha fatto scoprire le convenienze dello smart working, soprattutto dal punto di vista padronale, anche ove il padrone è lo Stato. Non ci si lasci trarre in inganno dalle stupide dichiarazioni sui lavoratori sdraiati sul divano di casa. Il vantaggio è evidente per i datori di lavoro. Non vi è solo la invasività del tempo di lavoro, ancora di più indistinguibile da quello di vita, il risparmio sulle attrezzature, sulle mense aziendali e via dicendo, ma soprattutto la condizione di isolamento fisico della lavoratrice e del lavoratore che limita enormemente, quando non annulla del tutto, una qualsiasi forma di azione solidale e collettiva. Dalle prime ci si può difendere con il diritto alla disconnessione, alla fissazione precisa degli orari di reperibilità, alla istituzione di buoni pasto; per la seconda bisogna dare vita a nuove forme di contrattazione e organizzazione sindacale e non solo.

Finchè il lavoro agile era questione di pochi, tali problemi restavano in ombra. Ora che tende a diventare una forma di lavoro di massa gli stessi diventano esplosivi. Ma soprattutto, come ha giustamente osservato Piergiovanni Alleva, l’estensione del lavoro agile mette obiettivamente in discussione la cosiddetta teoria della eterodirezione, in base alla quale la subordinazione era congiunta o addirittura consisteva in una soggezione personale del lavoratore verso il controllo e il potere del datore di lavoro. Il risvolto di questa teoria era quindi che se le direttive si presentavano come generiche, si poteva supporre un margine di libertà per il lavoratore tale da poterlo considerare autonomo e non subordinato.

Si tratta di fare saltare entrambe queste teorie, elaborando una nuova configurazione della subordinazione del lavoratore e per converso del suo carattere autonomo, quando effettivamente esiste. Per farlo, sulla scorta di una sentenza della Corte Costituzionale del 1996, il lavoratore subordinato è colui che presta la sua attività in una logica e in un progetto di impresa su cui non ha alcun controllo, mentre questa ha la capacità e la facoltà di appropriarsi immediatamente dei frutti del suo lavoro. Una tale definizione avrebbe la possibilità di spostare l’asse che separa il lavoro subordinato da quello autonomo, dalla semplice proprietà dei mezzi di produzione, a quello della libera scelta sulle finalità, e non solo sulle modalità, dell’attività lavorativa. Un progetto non da poco, base di una possibile riunificazione del mondo del lavoro, che una sinistra che volesse essere tale dovrebbe coltivare con cura.

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