Come ci ha insegnato Stefano Rodotà, la dignità è una cosa seria: un governo che chiude i porti dovrebbe, come prima cosa, avere il pudore di non usare questa parola per qualificare alcuno dei propri provvedimenti. Ciò detto, la bozza del Decreto, così impropriamente nominato, contiene alcuni elementi in controtendenza rispetto alle più recenti riforme in materia di LAVORO che vanno sottolineati, sia per comprenderne l’effettiva portata, sia per riconoscere che non sono sufficienti a determinare l’annunciata e radicale “inversione di rotta”. Eppure ne avremmo estremo bisogno, posto che, per almeno tre generazioni, il lavoro, invece di coniugarsi con la libertà, come vorrebbe la Costituzione, è divenuto, essenzialmente, precarietà e ricatto.
1. Contratti a termine e somministrazione a tempo determinato.
Se il Jobs Act aveva completamente sganciato i rapporti temporanei (lavoro a termine e somministrazione a tempo determinato) da ogni effettiva esigenza di carattere temporaneo (a-causalità), la bozza di Decreto, giustamente, reintroduce la giustificazione causale per le assunzioni a termine e la somministrazione a tempo determinato. Il problema è che lo fa solo dopo i primi 12 mesi, con il fondato rischio, peraltro già corso e sperimentato dopo la riforma Monti-Fornero del 2012, di un enorme turn-over tra giovani lavoratori condannati a ruotare su contratti di breve durata, rischio che potrebbe aggravarsi per via dell’abbassamento a 24 mesi della durata massima del contratto tempo determinato (proroghe e rinnovi inclusi) rispetto ai 36 prima previsti.
2. Somministrazione a tempo indeterminato.
Nessuna restrizione allo staff leasing, ossia alla somministrazione a tempo indeterminato, introdotta per la prima volta dalla c.d. riforma Biagi del 2003: l’istituto, che deresponsabilizza l’impresa, consentendole di operare, anche stabilmente, con lavoratori dipendenti da un’agenzia terza, resta in piedi, a dispetto delle dichiarazioni che ne annunciavano la soppressione o il radicale ridimensionamento, dopo la completa liberalizzazione decisa col Jobs Act (salvo il limite del 20% sul totale dei dipendenti diretti dell’impresa utilizzatrice).
3. Rimedi al licenziamento illegittimo.
Viene ritoccato, nel minimo e nel massimo, l’importo delle indennità previste in caso di licenziamento sprovvisto di una valida giustificazione, per gli assunti dopo il 7 marzo 2015 (e, dunque, con “contratto a tutele crescenti”). La soglia minima salirebbe da 4 a 6 mensilità, la massima da 24 a 36, restando, tuttavia, impregiudicato il meccanismo di calcolo che prevede la corresponsione, al lavoratore ingiustamente licenziato, di due mensilità, per ogni anno di anzianità di servizio. Rumoroso, ma poco rilevante, in concreto, l’innalzamento del tetto massimo (posto che è assai infrequente, tra i nuovi assunti, lavorare più di 18 anni nella stessa impresa); troppo esiguo – sempre che sia confermato – l’innalzamento della soglia minima, specie in presenza del perdurante meccanismo di conciliazione stragiudiziale (art. 6, d.lgs. n. 23/2015) che prevede un dimezzamento degli anzidetti importi.
La reintegrazione, invece, ossia il più antico ed efficace rimedio contro gli abusi, resta una chimera.
4. Esternalizzazioni oltre-confine.
Bene il capitolo relativo alle sanzioni per le imprese che, dopo aver beneficiato di aiuti pubblici nei precedenti 5 anni (ma, inizialmente, dovevano essere 10), trasferiscono all’estero la produzione, con l’obbiettivo di sfruttare un costo del lavoro più basso. Ciò, a patto di definire estensivamente la nozione di “delocalizzazione” e monitorare gli effetti della norma così da scongiurare la cattiva abitudine del c.d. shopping normativo, cui sono avvezze specialmente – ma non soltanto – le imprese multinazionali.
5. Lavoro a chiamata, parasubordinazione e “lavoro digitale”.
Nessuna novità in tema di lavoro a chiamata, lavoro non subordinato e lavoro digitale tramite piattaforma. Su queste vecchie e nuove frontiere della precarietà più estrema, in tempo di gig economy, il Governo, dopo aver prospettato, alla metà di giugno, una vera “rivoluzione”, a seguito delle lotte dei ciclofattorini impegnati nella consegna di cibo a domicilio, ha fatto, per ora, retromarcia: la bozza di articolato, che prevedeva un allargamento della nozione di lavoro dipendente, tale da agganciare, finalmente, anche le molte forme di lavoro per conto altrui, mediate da piattaforme digitali e, più in generale, senza soggezione personale agli ordini di un capo, desueta e indimostrabile in tanti segmenti dell’attuale sistema produttivo, è stata, per ora, stralciata, in attesa di un tavolo di confronto tra sindacati e grandi piattaforme digitali, le quali non vogliono saperne di riconoscere i lavoratori un pieno regime di tutela e garanzia (malattia, infortunio, gravidanza, ferie, equa retribuzione diretta e indiretta, tutele contro il licenziamento illegittimo…).
Insomma, se “la rivoluzione non è un pranzo di gala”, qui siamo alla vigilia della merenda.
Il che non impedisce, ed anzi, impone, che vecchi e nuovi lavoratori facciano sentire, forte, la propria voce, per strappare ciò di cui hanno bisogno in quest’aspra stagione. Del resto, la lotta alla precarietà e il bisogno di tornare a stringere un legame tra lavoro e libertà sono divenuti senso comune. E non per merito di Luigi Di Maio.
* Federico Martelloni è professore associato di diritto del lavoro all’università di Bologna. Oltre a numerosi saggi in svariate riviste, ha pubblicato Lavoro coordinato e subordinazione. L’interferenza del lavoro a progetto (Bup, Bologna, 2012) e Lavoro, diritto e Democrazia. La norma giuslavoristica in cerca di legittimazione: rilievi critici (Cedam 2018).
Dal giugno 2016 è capogruppo di Coalizione civica per Bologna in Consiglio comunale.