1. Le proposte di legge dei partiti di centro-sinistra e le ragioni dell’atteggiamento scettico e omissivo dell’area governativa
Sono state depositate, a far tempo dall’ottobre 2022. sei proposte di legge, tutte provenienti dalle forze politiche di opposizione, in tema di salario minimo legale e dirette ad attuare la direttiva Europea 2022/2041 del 12 ottobre 2022 sui salari minimi adeguati nell’Unione Europea. Si tratta delle proposte C. 141 Fratoianni, c. 210 Serracchiani, C. 126 Laus, C. 306 Conte, C. 432 Orlando e C. 1053 Richetti alle quali dedichiamo questa nota di illustrazione e comparazione dopo avere precisato, però, che nessuna proposta è stata formulata dal Governo o dalle forze politiche di centro destra che lo sostengono, per le ragioni, ripetute ostinatamente e senza disponibilità a confronti dialettici, che converrà, pertanto, ricordare e confutare in via preliminare.
La contrarietà di principio del centro destra alla introduzione di un salario minimo legale, sia in forma di retribuzione minima oraria (es. euro 10,00 per ora di lavoro), sia di retribuzione mensile (es. euro 1.700,00 mensili) è stata, dunque, giustificata con due ordini di ragioni, da tenere ben presente anche per la migliore comprensione, poi, delle proposte presentate dalle forze politiche di centro-sinistra. La prima ragione accampata dal centro-destra (e in genere da tutti coloro che sono contrari al salario minimo legale) è che nel nostro Paese l’introduzione di un salario minimo legale rischia di “ammazzare” la contrattazione collettiva, perché quest’ultima, pur essendo diffusa in tutti o quasi tutti i settori produttivi, non ha, giuridicamente, efficacia soggettiva cogente e generale (erga omnes) per tutti i lavoratori e datori di lavoro operanti nei singoli settori, bensì solo per i dipendenti di datori di lavoro iscritti alle Organizzazioni sindacali datoriali firmatarie (Confindustria, Confcommercio ecc.). Con la conseguenza – si dice – che l’introduzione di un salario minimo legale darebbe l’incongruo risultato di provocare una “fuga” dalla contrattazione collettiva dei datori di lavoro, ossia la loro fuoriuscita dalle organizzazioni firmatarie, onde poter applicare ai propri dipendenti solo il salario minimo legale, e non il ben più ampio, conveniente e articolato trattamento economico-normativo previsto dai contratti collettivi. La seconda, e non meno importante, ragione sarebbe costituita dallo “schiacciamento salariale” indotto dalla introduzione di un salario minimo legale, il quale dovrebbe naturalmente (come in tutti i Paesi che lo hanno adottato) essere unico per tutti i lavoratori di ogni settore, laddove, invece, nei contratti collettivi le retribuzioni tabellari dei lavoratori sono, nei diversi settori, articolate e parametrate secondo una scala di qualifiche rispecchianti il diverso pregio delle diverse mansioni. Si avrebbe, dunque, il temuto “schiacciamento” verso il basso del trattamento salariale (unico), salva, poi, l’esplosione probabile di una ingovernabile e intricatissima “giungla” di accordi meramente individuali, di contenuto migliorativo rispetto al salario minimo legale. La soluzione vera del problema sarebbe costituita – osservano e concludono gli esponenti del centro-destra – dall’attuazione (dopo 80 anni circa) dell’art. 39, quarto comma, della Costituzione, che prevede istituti e procedure per la valida stipula di contratti collettivi con efficacia erga omnes, ossia validi e cogenti per tutti i datori di lavoro e lavoratori del settore considerato dal contratto collettivo, indipendentemente dalla iscrizione o non iscrizione alle organizzazioni sindacali dei datori e dei lavoratori firmatarie dello stesso contratto collettivo.
Ma poiché l’attuazione dell’art. 39, quarto comma, Costituzione si è rivelata, lungo un arco temporale di 80 anni, non praticabile in concreto per la farraginosità dei suoi strumenti e della procedura, e per altro verso, la Corte costituzionale fin dai primi anni ’60 (cfr. Corte cost. n. 106/1962), ha sentenziato l’illegittimità di strumentazioni legali alternative e diverse (caso della cd Legge Vigorelli) che raggiungano il risultato di conferire ai contratti collettivi efficacia erga omnes, si può prendere atto che il Governo e le forze politiche di centro-destra, nel concreto, e almeno fino al momento attuale, hanno deciso di non fare nulla e lasciare così briglia sciolta e campo libero al sotto salario e al “lavoro povero” e irregolare. Per altro verso, però, si spiega, allora, come almeno cinque delle sei proposte presentate dalle forze di centro-sinistra siano conformate, sia contenutisticamente che metodologicamente, proprio in modo da fornire una appagante risposta, di sicura legittimità giuridica, a quelle due “ragioni di pericolo”, che apparentemente giustificano l’atteggiamento scettico, negativo e omissivo dei partiti di centro-destra.
2. Articoli 36 e 39 costituzione quali strumenti diversi per la generalizzazione, con legge ordinaria, dei trattamenti retributivi dei contratti collettivi. Ragione della preferenza per una legge di completa attuazione dell’art. 36 Costituzione. Il “minimo salariale legale assoluto” come ruota di scorta della contrattazione
Il tratto comune e qualificante delle cinque proposte C. 141 Fratoianni, C. 210 Serracchiani, C. 126 Laus, C. 306 Conte, C. 432 Orlando è di presentarsi come proposte di legge di completa e totale applicazione dell’art. 36 Costituzione, già oggi (e da molto tempo) vigente quale regola, insita in ogni rapporto di lavoro, che obbliga il datore di lavoro a corrispondere al lavoratore una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità di lavoro prestato, e comunque sufficiente «ad assicurare al lavoratore ed alla sua famiglia una esistenza libera e dignitosa». Tuttavia la garanzia di detta retribuzione adeguata non è predeterminata nel suo importo quantitativo, che è rimesso alla prudente discrezionalità del giudice, e non collima di necessità e giuridicamente, né con i minimi tabellari previsti dai contratti collettivi del settore dove opera il lavoratore, né con il “complesso del trattamento economico-normativo” previsto dallo stesso contratto collettivo e comprendente, oltre i minimi tabellari, le mensilità aggiuntive di tredicesima ed eventualmente di quattordicesima, nonché indennità varie stabili e meno stabili legate alle mansioni. Il giudice, infatti, può “andare sotto” i minimi tabellari e sotto il trattamento economico complessivo, anche se può, per altro verso, “andar sopra”, quando giudichi inadeguato lo stesso contratto collettivo, e ciò è capitato non di rado quando si trattava di contratti “pirata”, stipulati da piccoli sindacati autonomi o per piccoli settori specifici (es. scuole private). Tuttavia, il riferimento preferito dai giudici per quantificare in concreto la retribuzione adeguata dovuta ai lavoratori in sede di controversia giudiziale ex art. 36 Costituzione, resta pur sempre e nella grande maggioranza dei casi quello di trattamento economico previsto dai contratti collettivi di settore, per le diverse qualifiche da loro previste.
Dunque, il primo obiettivo delle proposte di legge ricordate è quello di stabilizzare e rendere cogente, e non più discrezionale, il riferimento, come trattamento minimo dovuto a tutti i lavoratori, quello previsto dai contratti collettivi, e, in particolare, dai contratti collettivi conclusi da sindacati “comparativamente” più rappresentativi, da identificarsi normalmente nei grandi sindacati confederali (cfr. Cass. n. 17583/2014). Le due obiezioni delle forze politiche dell’area governativa e di centro-destra alla introduzione di un salario minimo legale, vengono in tal modo “smontate”, e messe nel nulla, per così dire, perché si perverrebbe, con una legge di piena attuazione dell’art. 36, quarto comma, Costituzione, proprio al risultato che da quella parte politica è stato indicato come unico valido e privo di controindicazioni, quello cioè della efficacia generale e fruizione da parte di tutti i lavoratori dei trattamenti economici previsti dal contratto collettivo di settore. Pervenendo, però, a quel risultato per la via, sicuramente e tranquillamente percorribile, della piena attuazione dell’art. 36 Costituzione, e non per quella, assolutamente impervia, dell’attuazione dell’art. 39, quarto comma.
Diciamo che la via della piena attuazione dell’art. 36 è “sicura e tranquilla” perché è già stata esaminata, testata e approvata dalla Corte costituzionale con la sentenza 26 marzo 2015, n. 51, che ha proprio risolto il problema qui esposto, seppur con riguardo a un ambito limitato (qualitativamente equivalente), quello del trattamento economico comunque dovuto ai soci lavoratori di cooperative di produzione e lavoro. Si ricorda, in proposito, che in forza dell’art. 7, comma 4, del decreto legge 31 dicembre 2007 n. 248, le società cooperative dovevano applicare ai propri soci lavoratori «trattamenti economici complessivi non inferiori a quelli dettati dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale nella categoria». Il dubbio di incostituzionalità che era sorto in proposito era lo stesso che aveva portato alla dichiarazione di incostituzionalità della legge Vigorelli, con la sentenza n. 106/1962: non si trattava, forse, nuovamente di un aggiramento dell’art. 39, quarto comma, Costituzione, di un modo per conferire efficacia erga omnes ai contratti collettivi per una via diversa da quella voluta dalla norma costituzionale? La risposta della Corte è stata, questa volta, nel senso della piena legittimità della norma contestata perché con l’art. 7 comma 4 decreto legge n. 2487/2007 non erano i contratti collettivi ad acquistare efficacia generale come fonte giuridica, ma era il precetto dell’art. 36 Costituzione a garantire ai soci lavoratori dei trattamenti complessivi minimi utilizzando quei contratti collettivi come “parametro esterno” di commisurazione da parte del giudice. Non si tratta di un sofisma, ma di una differenza concettuale ben chiara e precisa; la “cartina di tornasole” è costituita dalla circostanza che se il giudice vede certamente limitata “verso il basso” la sua discrezionalità, non potendo più “andar sotto” il livello dei trattamenti previsti dai contratti collettivi sottoscritti da sindacati comparativamente più rappresentativi, per altro verso, può tuttavia, ancora “andar sopra”, ove trovi gli stessi trattamenti contrattuali collettivi inidonei. E questo proprio perché sta applicando l’art. 36 Costituzione e non i contratti collettivi quali fonti giuridiche.
In sostanza si può dire che le cinque proposte sopra ricordate risolvono, con il ricorso alla piena attuazione dell’art. 36 Costituzione, nel modo più ampio ed efficace la problematica di garantire a tutti i lavoratori i trattamenti contrattuali collettivi, ma, per così dire, non hanno inventato nulla: hanno solo seguito il solco tracciato dalla Corte costituzionale n. 517/2015, il che – a nostro avviso – è quanto di meglio potesse e possa succedere.
Resta, però, una domanda: a che serve, allora, il salario minimo legale in senso stretto, ossia la fissazione di un importo di retribuzione oraria o mensile, intercategoriale (es. euro10 orari o euro 1.700 mensili) uguale per tutti i settori e per tutti i lavoratori? Serve, perché, come dicevano i vecchi Maestri del diritto sindacale, “anche la contrattazione collettiva ha le sue debolezze”, e cioè anche i contratti collettivi sottoscritti dai sindacati comparativamente più rappresentativi possono rivelarsi troppo “avari” verso i lavoratori di bassa qualifica in settori produttivi “poveri”, come, per intenderci, il settore terziario “non avanzato” (logistica, multiservizi, turismo ecc.), nei quali la retribuzione tabellare, ossia delle ultime tre-quattro qualifiche risulta inferiore (e anche di molto) ai 9 euro. In questi casi l’importo assoluto di salario legale minimo entrerebbe in funzione come “ruota di scorta”, per così dire, di una contrattazione in quei punti non soddisfacente, sostituendo il valore minimo assoluto (euro 9 orari, o euro 10 o quel che sia) alla più bassa tariffa di qualifica prevista dal contratto collettivo nelle “parti basse” della scala di inquadramento. Questa struttura concettuale è comune, si diceva, a quelle cinque proposte e può essere riassunta nella formula “generalizzazione, in base alla disciplina di piena attuazione dell’art. 36 Costituzione, dei trattamenti economici dei contratti collettivi firmati dai sindacati contrattualmente più rappresentativi, accompagnata dall’eventuale fattore correttivo di un minimo salariale unico”.
Restano, però, almeno due questioni di rilevante importanza sulle quali quelle proposte devono trovare una formula inequivoca e tranquillizzante: ciò che viene garantito a tutti i lavoratori è un trattamento economico complessivo, equivalente a quello proprio dei contratti collettivi (e quindi non solo minimi tabellari di qualifica, ma anche mensilità aggiuntive di tredicesima ed eventuale quattordicesima, e scatti di anzianità e indennità varie) o, invece, vanno garantiti solo i minimi tabellari di qualifica o paga base? Non si dimentichi in proposito che la giurisprudenza più restrittiva in tema di art. 36 Costituzione, limita la garanzia, appunto, alla sola paga-base dei contratti nazionali. Questa soluzione è accolta dal progetto C. 216 Laus, ma non può essere condivisa, e va tenuto fermo (come fanno i progetti Conte, Fratoianni, Orlando, Serracchiani) invece, il riferimento al trattamento economico complessivo da assicurare con l’auspicata norma di piena attuazione dell’art. 36 Costituzione: altrimenti – notiamo – riprenderebbero vigore, quanto meno in parte, le obiezioni strumentalmente avanzate dal centro destra, perché i datori di lavoro avrebbero tutto l’interesse a fuoriuscire dalle organizzazioni datoriali onde essere giuridicamente tenuti a pagare ai loro dipendenti solo la paga-base o minimo tabellare e non tutte le altre voci retributive previste dal contratto collettivo. La seconda questione riguarda quella che abbiamo chiamato la “ruota di scorta della contrattazione”, nel senso che il minimo salario legale assoluto, poniamo di 10 euro, può essere inteso come un “valore tabellare” di paga-base oraria, con riflessi, poi, sulla retribuzione complessiva (composta anche da mensilità aggiuntive, scatti di anzianità, indennità), ma anche, e invece, come un “valore-risultato”, comprendente già l’incidenza della tredicesima, della eventuale quattordicesima, indennità di turno ecc., il che abbasserebbe non di poco l’importanza della garanzia. Per evitare equivoci, fraintendimenti da infinite discussioni è meglio che l’ammontare della “ruota di scorta”, o salario minimo legale assoluto, sia espresso in valori mensili (es. 1.700 euro mensili), perché così (e non già in termini di retribuzione oraria) si esprimono in tabelle salariali dei contratti collettivi, e a nessuno verrebbe in mente di sostenere, a fronte di una tabella di minimi salariali di contratto collettivo che preveda per l’operaio di 5° livello, una paga di 1.700 euro mensili, che essa comprenda anche una frazione di tredicesima o dell’eventuale quattordicesima, di indennizzi di turno ecc.
Fin qui si è detto delle cinque proposte di legge con strutture concettuali comuni (salva la peculiarità, peggiorativa, della proposta Laus sopra ricordata) ma occorre anche occuparsi, perché espressiva della posizione della parte più moderata del centro-sinistra della stessa proposta C. 1053 Richetti e altri. Questa proposta non prevede una norma generale di piena attuazione dell’art. 36 Costituzione, ma solo la introduzione di una retribuzione minima oraria di 9 euro – a quanto è dato di comprendere dovrebbe essere confrontata con la retribuzione complessiva annua percepita dal lavoratore, suddivisa per le ore lavorate o lavorabili nell’anno –. La proposta suscita numerosi interrogativi e non sembra in grado di respingere efficacemente le posizioni scettiche di centro-destra, anche per la necessità di rendere operativa una istituenda “Commissione per l’aggiornamento della retribuzione oraria minima”.
3. Elementi di confronto, oltre che di convergenza tra i progetti di legge
Si può, dunque, procedere a una comparazione tra le proposte di legge, per indicare peculiarità o consonanze.
Una prima importante notazione riguarda l’indicazione, come riferimenti per l’applicazione integrale dell’art. 36 Costituzione, dei contratti collettivi sottoscritti da organizzazioni sindacali “comparativamente più rappresentative”: va notato infatti che la proposta C. 306 Conte, all’art. 3, secondo comma, prevede anche criteri di “misurazione” della rappresentatività con rinvio agli accordi interconfederali (T.U. del 2014), mentre le altre proposte si limitano a un rinvio generico alla rappresentatività “comparativamente” maggiore. Va notato che la nozione generica (ovvero “storica”) è stata fino ad ora utilizzata senza inconvenienti, in applicazione dell’art. 51 decreto legislativo n. 81/2015, anche se il tema dovrà senza alcun dubbio essere ripreso funditus in un futuro intervento legislativo organico in tema di rappresentanza e rappresentatività sindacale, di cui si sente più che mai il bisogno. Sempre con riguardo ai contratti collettivi sottoscritti dai sindacati comparativamente più rappresentativi, destinati a fungere da “riferimento esterno” per l’applicazione del trattamento complessivo dovuto ai sensi della normativa di totale applicazione dell’art. 36 Costituzione, è importante notare come le principali proposte (Conte, Orlando, Fratoianni) prevedano l’ultrattività del riferimento dei loro contenuti anche dopo la scadenza, con applicazione, altresì, di un adeguamento alla eventuale inflazione.
Le proposte ora ricordate, si preoccupano, inoltre, di estendere la garanzia di retribuzione adeguata al di là dei confini del lavoro subordinato, ma in realtà il richiamo alle collaborazioni coordinate e continuative di cui all’art. 2 decreto legislativo n. 81/2015 non aggiunge nulla perché esse sono già considerate di lavoro subordinato o ad esso equiparato. Invece nell’art. 2 del progetto Fratoianni vengono in effetti superati i confini del lavoro subordinato (comprendendo anche i rapporti di agenzia e rappresentanza commerciale oltre alle collaborazioni coordinate e continuative non equiparati al lavoro subordinato), con la previsione del diritto «a un compenso al risultato ottenuto, avuto riguardo al tempo normativamente necessario per conseguirlo». La questione andrebbe senz’altro ripresa in sede di auspicata redazione di una proposta unificata.
Con riguardo, infine, ai profili sanzionatori del mancato rispetto da parte dei datori di lavoro della garanzia retributiva di trattamento non inferiore a quello previsto dai contratti collettivi va segnalato che sia il progetto Fratoianni (C. 141), sia il progetto Serracchiani prevedono sanzioni amministrative, ma è il progetto Conte (C. 306) a predisporre una strumentazione convincente: nell’art. 6 è previsto un procedimento giudiziario sommario (sul modello dell’art. 28 dello Statuto dei Lavoratori) per la repressione delle condotte elusive della corresponsione ai lavoratori del trattamento economico complessivo, e inoltre è opportunamente evocata l’applicazione, in sede amministrativa, dell’istituto della “diffida accertativa” di cui all’art. 12 decreto legislativo n. 124/2004. E questa diverrebbe la “via regia” per la lotta al sottosalario perché non occorrerebbe più intentare un giudizio per ottenere la retribuzione adeguata, affidandosi alla discrezionalità del giudice, ma basterebbe rivolgersi all’Ispettorato del lavoro per ottenere il pagamento di un credito differenziale reso certo e determinato proprio dal riferimento legislativo ai contratti collettivi e ai trattamenti da essi previsti.