Luciano Gallino dedicò a suo tempo pagine illuminanti contro lo stigma che colpisce i poveri, gli emarginati, i disoccupati, e che presiede alla logica “punitiva” che non di rado accompagna i sussidi elargiti a favore delle fasce marginali del mercato del lavoro e della società.
A quella logica (magistralmente raccontata nel film Io, Daniel Blake di Ken Loach) ha ampiamente ceduto anche il Movimento 5 Stelle nell’introdurre in Italia il reddito di cittadinanza dopo anni di campagna battente sulla povertà. Ha ceduto, non “ha dovuto cedere” perché, com’è accaduto anche su altri temi, il compromesso è stato spacciato da quella forza politica come frutto dell’acquisizione di una maggiore consapevolezza e raggiungimento di un equilibrio più avanzato. “Nessuno deve rimanere indietro” era lo slogan che rappresentava la risposta di Beppe Grillo e dei suoi al fanatismo ideologico dell’austerità europea dopo la crisi del 2008. Grillo, nel frattempo, ha scelto una linea più radicale, abbracciando la campagna internazionale per un reddito di base incondizionato e abbandonando il vecchio reddito di cittadinanza – di fatto un sussidio di disoccupazione alla tedesca – al debole catenaccio di Giuseppe Conte e dei suoi.
Intanto, secondo i dati Inps riferiti ad agosto 2021, sono oltre un milione e duecentomila i nuclei familiari attualmente beneficiari, per un importo medio di 576,25 euro. Secondo l’ultima relazione annuale della Corte dei conti, pubblicata nel febbraio scorso, si tratta di uno “strumento universale di lotta contro la povertà” che ha svolto una funzione “essenziale”, insieme agli interventi emergenziali messi in campo nel frattempo, per contrastare gli effetti sociali più pesanti della pandemia.
Ma da anni le organizzazioni datoriali, gran parte degli esponenti politici di centrodestra e centrosinistra, una fetta del mondo sindacale, con giornalisti e accademici più o meno militanti, martellano l’opinione pubblica con la retorica dei “parassiti da divano”, tarda scimmiottatura della mitica welfare queen della propaganda classista e razzista della destra reaganiana. La soluzione all’italiana è stata quella di obbligare i beneficiari, dove possibile, a fornire lavoro gratuito a progetti di utilità sociale nei Comuni di residenza. Gratuito ma, in teoria, mai in sostituzione di personale dipendente.
Incredibilmente, a fronte dell’estrema visibilità offerta dal mondo dell’informazione ai casi di sussidi percepiti indebitamente, pare che nessuno si si sia chiesto se poter disporre di questa manodopera abbia indotto in tentazione i Comuni, producendo qualche abuso. Eppure basterebbe uno sforzo minimo di indagine per scoprire casi in cui il lavoro “sociale” si sostanzia nella sostituzione dell’operaio comunale (o in appalto) nella manutenzione dell’arredo urbano o dell’impiegato nel riordino di un archivio; quando non si tratta di “oliare” con un po’ di lavoro a domicilio le buone relazioni fra il dirigente pubblico e il notabile di paese; sotto il permanente ricatto della “segnalazione” e della perdita del sussidio. È il sistema oppressivo del cosiddetto workfare, denunciato da sinistra, talvolta con eccessiva indifferenza rispetto ai benefici sociali reali, alla riduzione delle aree di povertà, soprattutto povertà assoluta, che risultano dalle rilevazioni dell’Istat o della Caritas.
I percettori di reddito di cittadinanza vengono reinseriti al lavoro secondo un sistema non troppo dissimile dal discusso sistema Hartz IV tedesco (quello dei famigerati mini-jobs che gli assistiti sono obbligati ad accettare, con vincoli variabili a seconda dell’età e della condizione familiare). Vero è che la Corte dei conti, nella citata relazione, ha evidenziato anche i risultati insoddisfacenti sul fronte del reinserimento lavorativo di chi incassa il reddito di cittadinanza: solo il 14,5% ha trovato lavoro, e solo il 13% di questi con un contratto a tempo indeterminato (per quel che vale, dopo il Jobs Act, l’antica dicitura). Dato che viene correntemente interpretato come segno del “fallimento” della misura, ma può essere anche letto come la conferma del fatto che il concetto del mismatch, ovvero del mancato incontro fra domanda e offerta come causa della disoccupazione, sia quantomeno sopravvalutato. A creare lavoro dovrebbero essere principalmente investimenti pubblici e privati, e politiche economiche e sociali tese a rilanciare la domanda. Ma siamo in Italia e gli imprenditori che cercano manodopera, per esempio nel settore del turismo e della ristorazione, se non trovano personale, invece di rivolgersi ai Centri per l’impiego – cosa che li impegnerebbe ad applicare regolari contratti – cercano un giornale compiacente che li intervisti e denunciano il “disincentivo” rappresentato dal sussidio.
Sono certamente possibili correzioni per una maggiore efficacia nel reimpiego della forza lavoro o nel potenziamento dei controlli sui “falsi positivi” (evasori fiscali, lavoratori sommersi o criminali tout court). Ma resta da chiedersi: cosa ha scatenato una campagna così lunga e virulenta per la cancellazione o una pesante correzione della legge? Il tema era già emerso all’epoca delle audizioni in parlamento, a inizio 2019. Per l’allora presidente dell’Inps, Tito Boeri, si trattava di un intervento a gamba tesa nel mercato del lavoro: “(…) quasi il 45% dei dipendenti privati nel Mezzogiorno – ricordava l’economista – ha redditi da lavoro netti inferiori” a un percettore di reddito di cittadinanza che dichiari reddito zero.
Sulla stessa lunghezza d’onda, la Confindustria metteva in luce la vera preoccupazione delle imprese: “I 780 euro mensili che percepirebbe un single, privo di altro reddito dichiarato, potrebbero scoraggiarlo dal cercare un impiego, considerando che in Italia lo stipendio mediano dei giovani under 30, al primo impiego, si attesta sugli 830 euro netti al mese: 910 al Nord (820 per i non laureati) e 740 al Sud (700 per i non laureati)”. Come sappiamo, in alcuni settori lavorativi quelle cifre sono perfino ottimistiche, e spesso non si riferiscono affatto al solo primo impiego. È lecito pensare, quindi, che l’avversione al reddito di cittadinanza sia proprio dettata da questo effetto di calmiere rispetto alle manifestazioni più brutali dello sfruttamento della manodopera sottopagata.
Il tema dell’annunciata “riforma” del reddito di cittadinanza, dunque, si intreccia con il dibattito sulla necessità di introdurre un salario minimo, strumento legislativo in vigore in ventuno Paesi dell’Unione europea (ne abbiamo parlato diffusamente qui), ma sgradito ai sindacati e temutissimo dalle associazioni padronali. La Commissione europea ha elaborato uno schema di Direttiva che è stato esaminato anche dal parlamento italiano per estendere il ricorso a questo strumento.
Secondo un rapporto diffuso dalla Commissione europea, i lavoratori poveri (Iwp, “in-work poor”) erano il 9,4% nel 2017, con 20,5 milioni di lavoratori che facevano parte di nuclei familiari a rischio povertà. Tutto ciò prima del disastro socioeconomico indotto dalla pandemia. Di salario minimo si è parlato nella campagna elettorale tedesca, dove sia il candidato socialdemocratico alla cancelleria, Olaf Scholz, sia la leader dei Verdi Baerbock, hanno ribadito la proposta di portare il salario minimo da 9,60 euro a 12 euro l’ora. Si è andati oltre le parole in Spagna, dove il governo ha concordato con i sindacati (Confindustria contraria) un nuovo innalzamento del salario mínimo interprofesional a 965 euro al mese. Quando il governo Sánchez entrò in carica, era di 735 euro, e per il futuro la coalizione di sinistra al governo ha in progetto un ulteriore aumento fino a 1050 euro entro il 2023. Negli Stati Uniti, l’amministrazione Biden ha varato nell’aprile scorso un “ordine esecutivo” che vincola i Federal Contractors a erogare un salario minimo orario di 15 dollari. Ma la battaglia politica – stimolata dalle lotte dei lavoratori e dei movimenti di base, e raccolta in origine dalla sinistra democratica guidata da Bernie Sanders – è più ampia: riguarda l’insieme del mercato del lavoro.
In Italia, dove il discorso pubblico è ancora ostaggio del mito antipolitico dei “tecnici”, è passata abbastanza sotto silenzio la scelta del governo Draghi di eliminare dalla versione definitiva del Piano nazionale di ripresa e resilienza il riferimento al salario minimo, previsto dalle bozze. Il momento più avanzato del dibattito politico resta probabilmente la risoluzione adottata dalla commissione Lavoro del Senato sulla proposta di Direttiva dell’Unione europea: “Appare auspicabile – hanno scritto i senatori – favorire l’introduzione di una soglia minima inderogabile. Da ciò deriverebbe peraltro un rafforzamento dei contratti collettivi, in quanto la soglia opererebbe solo sulle clausole relative ai salari ‘minimi’ – ove inferiori alla soglia individuata – lasciando al contratto collettivo la regolazione delle altre voci retributive. L’introduzione di una ‘soglia-test’ di dignità e adeguatezza rappresenterebbe dunque una vera e propria spinta verso l’alto del minimo salariale”.
Sono, come si è visto, temi centrali del confronto politico in nazioni che per noi e per la stessa Commissione europea sono in genere un punto di riferimento. Ma la debolezza o l’ambiguità degli attori politico-parlamentari, che in teoria potrebbero perseguire questa agenda nel nostro Paese, fa sì che di fatto il tema sia alquanto oscurato e si siano arenate in commissione al Senato le proposte per l’adozione di una legge sul salario minimo. Difficile cancellare la sensazione che senza una adeguata mobilitazione sociale e culturale, il destino che attende questa battaglia politica sarà quello di essere ripescata da qualcuno a parole solo in vista delle prossime elezioni politiche, nel 2022 o nel 2023, per tornare in un cassetto immediatamente dopo.