Il referendum sulla riduzione del numero dei parlamentari, se ci sarà, visto il balletto delle firme, sarà una trappola. Ci si chiederà di scegliere tra questo Parlamento umiliato e chi vuole ridurlo ancor peggio. E non avremo molto spazio per far valere le nostre ragioni.
È difficile infatti interloquire con chi ritiene che i problemi del parlamentarismo oggi si possano ridurre al numero dei suoi membri. Ci si attarderà a discutere con toni accesi e spreco di energie su questioni irrisorie, mentre si avverte l’urgenza assoluta di affrontare temi vitali per la democrazia parlamentare.
Così sentiremo politici irridenti sostenere le fatue ragioni della necessità di risparmiare sui costi della democrazia o la moralità di tagliare “poltrone”. I più sofisticati ricorderanno come queste motivazioni ripetute a suffragio della bontà della riforma sono false e rivelano anche una cattiva coscienza. Ma intanto ci avranno costretto a perdere tempo, mentre monta la marea.
Che i mali del Parlamento siano altri è ben noto a tutti, in primo luogo a chi, politici e giornalisti, si confronta sul nulla nei dibattiti televisivi. Eppure basterebbe che qualcuno affermasse ciò che è già evidente per smontare il castello di carte, basterebbe affermare che non sono i numeri a determinare la crisi del Parlamento, ben più complesso e profondo è il collasso nel quale siamo immersi. Basterebbe avere il coraggio di dire-il-vero (parresia), che è il modo migliore per il governo di sé e degli altri. Una lezione dimenticata.
E allora elenchiamoli alcuni dei veri problemi e cominciamo col dire che il Parlamento non è in crisi per un problema di numeri. Essi sono solo una variabile dipendente, che dovrebbero essere determinati con riferimento alle effettive funzioni esercitate. Questo è il vero problema del Parlamento italiano che ha perduto il suo ruolo autonomo nell’ambito del complessivo assetto dei poteri. Negli Stati Uniti il Senato è composto da 100 membri, il Inghilterra la Camera dei Comuni da 650, in Germania il Bundestag da oltre 700. La differenza con il Parlamento italiano è che in quei paesi la discussione parlamentare ha un suo rilievo, i singoli rappresentanti discutono, si assumono le responsabilità per cui sono stati eletti e poi, responsabilmente, votano. Non hanno vincoli di mandato, ma sanno bene che – oltre che al partito di appartenenza – dovranno rispondere politicamente agli elettori.
Basta pensare al ruolo determinante (anche dal punto di vista spettacolare) esercitato della Camera dei Comuni che in tutta la vicenda della Brexit ha dettato l’agenda, confrontandosi senza alcun timore reverenziale con il Governo. Per non dire del Congresso degli Stati Uniti (435 membri) che non ha avuto remore nel porre sotto accusa il Presidente eletto Trump, sospettato di avere abusato dei propri poteri. Non voglio generalizzare e so bene che i rapporti tra Parlamento e Governo sono diversi da paese a paese, dipendendo dalla forma di governo adottata e delle diverse tradizioni nazionali. Mi sembra però di poter tranquillamente affermare che nessuna democrazia occidentale si sia spinta così avanti nel processo di ghettizzazione dell’organo della rappresentanza popolare, posto ai margini della complessiva dinamica politica e privato di voce autonoma.
Nel Parlamento italiano, infatti, non si discute più, né si decide autonomamente alcunché. Alcune recenti vicende lo hanno mostrato con esemplare evidenza. Sono anni, gli ultimi due in modo sfacciato, che si assiste alla farsa di una legge finanziaria approvata ma non discussa, in realtà neppure conosciuta dai membri del Parlamento che votano ad occhi chiusi subendo l’umiliazione più grande, in violazione non solo della costituzione (prima o poi la Consulta lo attesterà) ma della stessa loro dignità. Se si seguita di questo passo ben poco importa che a votare siano in 630 o in 400, in ogni caso tutti voti a perdere.
Così nei casi in cui una Camera è chiamata a decidere sulla responsabilità dei ministri. Ciò che più dimostra la perdita del ruolo costituzionale del Parlamento è l’assoluta dipendenza delle decisioni assunte dagli equilibri altrove definiti, essenzialmente in sede di Governo. Se Salvini abbia abusato dei suoi poteri, non sarà accertato dalla giunta per le autorizzazioni, ma dalle valutazioni extraparlamentari e di convenienza del Governo. Così è stato nel caso Diciotti, così sarà – magari con esito diverso – nel caso Gregoretti. “Farò le mie verifiche” ha dichiarato il Presidente Conte e da queste dipenderà la decisione del Parlamento che non potrà fare altro che adeguarsi.
Altri innumerevoli esempi potrebbero essere richiamati per dimostrare l’inconsistenza parlamentare, la sua perdita di peso. Chiunque conosce il funzionamento delle Camere sa bene come ormai l’intera attività delle commissioni così come dell’aula è posta al servizio del Governo che detta l’agenda senza lasciare nessuna autonomia ai lavori dei parlamentari. Certo in questa prospettiva può ben dirsi che il numero dei parlamentari sia irrilevante. Rinunciando in tal modo però a porsi il reale problema della crisi del Parlamento ridotto ad ente privo di un suo ruolo autonomo. Ma è proprio da qui – dalla ridefinizione del ruolo costituzionale del Parlamento – che si dovrebbe partire se si volessero realmente affrontare i problemi che affliggono la nostra stressata democrazia parlamentare.
L’attuale legislatura era iniziata con un gran bel discorso del presidente, allora neoeletto, Fico, il quale con serena determinazione e chiarezza d’idee aveva individuato alcuni problemi reali ed aveva proposto misure di natura organizzativa importanti per cercare di recuperare una dignità alla funzione parlamentare. Nulla è stato fatto e il Parlamento ha proseguito nel suo lento declino. Ora fallita ogni prospettiva di seria riforma si gioca alla lotteria dei numeri. Peccato che nessuno vincerà. Non è una questione di numeri.