“Il governo di Netanyahu tiene a galla solo continuando la carneficina a Gaza e la violenza in Cisgiordania, ma ormai non ha più credito nel mondo e nemmeno in patria. Altri criminali, bianchi e colonialisti come lui, che purtroppo governano altri paesi, continuano a sostenerlo. Ma i popoli del mondo, quelli che dovremmo scrivere la storia, siamo tutti contro di loro, eppure ancora non contiamo niente. E allora, se vogliamo davvero cambiare qualcosa, dobbiamo fare gesti che non siano mai stati fatti prima, gesti che scuotano il mondo”. Contadino e scrittore, Claudio Tamagnini, conosciuto in Palestina come Abu Sara, reduce dal tentativo di sbarco a Gaza con la Flottilla, si accinge a riprovarci per alleviare le sofferenze locali e attirare l’attenzione sul genocidio in corso. Lo abbiamo intervistato.
Cosa si può fare, in concreto, per rompere questo isolamento e reagire?
«Bisogna fare qualcosa di grande, di mai visto. Perché le navi mercantili non provano a portare aiuti a Gaza dal mare? Non lo fanno. E allora dobbiamo farlo noi: 100 barche, a nome dei popoli di 40 paesi diversi, provare ad arrivare a Gaza, aprire un corridoio, dimostrare che si può. Non è solo un gesto simbolico: è dire al mondo che la solidarietà non ha confini, che non ci si piega al silenzio dei governi complici».
Un progetto ambizioso, ma non semplice. Non temi errori o infiltrazioni?
No, siamo sicuri di farne tanti di errori! E come potremmo, in due mesi – tanti ne sono passati da quando siamo stati fermati al Cairo – mettere in piedi una cosa simile con tutto sotto controllo? Come si selezionano equipaggi per 100 barche ed essere certi che non capiti un infiltrato? Non possiamo, e forse è giusto così: se vogliamo fare la differenza, dobbiamo correre il rischio. La paura non ci può fermare.
La Freedom Flotilla Coalition come reagisce a questa vostra iniziativa?
La Freedom Flottilla Coalition è come una mamma che ci guarda preoccupata, e ha ragione. Lavorano da un anno all’altro, preparando una imbarcazione, un equipaggio, passo dopo passo. Ma se vogliamo allargare la visibilità, fare qualcosa di mai visto, dobbiamo essere diversi, dobbiamo rischiare, anche imbarcando qualche infiltrato. Chi se ne frega! Il nostro obiettivo è arrivare a Gaza, aprire un corridoio, far sentire la voce dei popoli.
Ci sono grandi difficoltà logistiche ed economiche. Come pensate di superarle?
Cento barche da comprare, perché nessuno ce le regala, equipaggi da selezionare, volontari da formare, porti da organizzare, sabotaggi che certamente subiremo. Ma chi mette i soldi? Non importa: fosse anche Trump, purché si usino contro il Sionismo. E l’infiltrato, cosa può fare? Avvisa lo Shin Bet, che tanto sa già tutto? Noi dobbiamo fare rumore, visibilità, azione.
Tu stesso hai fatto esperienza di infiltrazioni in passato. Puoi raccontarci?
Sì, nel 2017, ad Amman, durante il primo meeting internazionale di ISM. Tutti attenti, tutti da allora comunichiamo solo con Signal. C’era una ragazza svedese, arrivata da poco a Ramallah, invitata come attivista sul campo. Chi avrebbe mai immaginato che fosse stata controllata al Ben Gurion e comprata per una bella cifra dallo Shin Bet? Era incaricata di filmare, registrare ogni incontro. Alla fine hanno fatto un filmato per la TV in ebraico, pubblicato foto segnaletiche su alcuni di noi. Eppure io sono rientrato in West Bank ben quattro volte. Certo, da allora i nostri training sono più rigorosi, ma il rischio resta, sempre.
E adesso come affrontate il pericolo che accada di nuovo?
Come possiamo controllare tutti e fare training a tutti? Speriamo di riuscire. Non possiamo aspettare un mese: Netanyahu non aspetta, il clima estivo finisce, rischiamo i temporali. Ma i migranti partono comunque, senza guardare il meteo, e così faremo anche noi. L’azione non si ferma per paura del vento o delle onde.
Qualcuno potrebbe dire che più vi esponete e più rischiate…
Certo, se entra qualcuno per spiarci, cosa può succedere? Non siamo già noti alla Digos? C’è qualcosa in più che possano scoprire? Qualche sabotaggio? Certo, più siamo e più possiamo avere in mezzo un indesiderato, ma più siamo e più rumore faremo. E questo è il punto: il rumore, l’azione, la visibilità, contano più della sicurezza assoluta.
E sul fronte pratico, come vi state muovendo per le imbarcazioni?
Siamo andati a caccia di barche, facendo amicizia con periti e venditori. Se spieghi cosa stiamo facendo, ottieni solidarietà: allora il mondo non è poi così rovinato! Avrei dovuto fare venire un pilota per portare una barca da Marsala a Tunisi, ma oggi il venditore di un’altra barca si è offerto di accompagnarmi lui! La solidarietà cresce, e questa è la conferma che stiamo andando nella direzione giusta.
Laura Tussi