A Gaza, il bilancio degli ultimi 14 mesi è catastrofico. Oltre 44mila palestinesi uccisi, tra cui 11mila donne, 17mila bambini, oltre 700 neonati. Più di 900 famiglie cancellate. Oltre 100mila feriti. 10mila sotto le macerie. Migliaia, inclusi adolescenti e bambini, amputati, spesso senza anestesia. Uomini, donne, bambini incarcerati, torturati, a volte vittime di stupro. Una popolazione intera traumatizzata, sfollata molteplici volte. Case, quartieri, città, tutte le università, centinaia tra scuole, chiese, moschee, biblioteche, archivi, campi agricoli, la rete idrica e fognaria: tutto raso al suolo. Nessun bambino a Gaza va a scuola da più di un anno e non vi tornerà presto. Dei 36 ospedali solo 17 rimangono parzialmente funzionanti, sebbene come scheletri nel deserto di macerie, dopo essere stati bombardati, assediati, saccheggiati, i pazienti bruciati vivi al loro interno o nelle tende in cui si erano assiepati in cerca di rifugio.
Una terra straziata, dove non rimane nulla che possa sostenere la vita. Questa è Gaza, dopo oltre un anno di “guerra” in nome di un presunto “diritto all’autodifesa” che Israele continua a rivendicare contro il parere negativo della Corte internazionale di Giustizia, che nel 2004 ha detto e nel 2024 ha ribadito che Israele non può esercitare il diritto all’autodifesa all’interno del territorio che occupa, per altro contro la Carta delle Nazioni unite e il diritto internazionale.
Per 14 mesi, nel mio ruolo di Relatrice Speciale Onu mi sono ritrovata a fare da testimone del genocidio in corso. La distruzione e la sofferenza inflitte al popolo palestinese non risalgono all’ottobre 2023, ma a decenni di occupazione in cui Israele ha sottratto impunemente terra e abitazioni, uccidendo adulti e bambini, arrestando quasi un milione di palestinesi (inclusi 10mila minorenni, una media di 600 all’anno) sulla base di ordini militari persecutori. L’occupazione, che la Corte internazionale ha dichiarato illegale e da smantellare incondizionatamente, è ciò che fa da contesto al genocidio, che genocidio è, nonostante il negazionismo di una parte consistente dei media e della politica occidentale.
Cos’è il genocidio, e perché dobbiamo affermare che Israele ne è responsabile? Come ho concluso nel mio quarto rapporto presentato al Consiglio dei Diritti umani dell’Onu nel marzo scorso, Israele si è macchiato di tre degli atti che costituiscono genocidio come descritti nella Convenzione del 1948: l’uccisione di membri del gruppo, l’inflizione di gravi danni fisici o mentali a membri del gruppo e la deliberata imposizione di condizioni di vita volte a provocare la distruzione fisica del gruppo, in tutto o in parte, in quanto tale. L’elemento cardine è il cosiddetto dolo specifico (mens rea): il perseguimento della distruzione, in tutto o in parte, di un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, in quanto tale (indipendentemente da ciò che i membri individuali del gruppo abbiano fatto o facciano).
Da ottobre 2023, a seguito dell’attacco inflitto da Hamas, Israele ha intensificato la distorsione dei principi cardine del diritto internazionale umanitario, quali i principi di distinzione tra combattenti e civili, di proporzionalità e precauzione in ogni parte dell’azione militare. I palestinesi sono stati sussunti nell’astrazione di categorie quali «scudi umani» (concetto impropriamente applicato all’intera popolazione per giustificare attacchi indiscriminati), espulsioni di massa mascherate come «ordini di evacuazione», gli sfollati concentrati in «zone sicure» (trappole di morte dove sono stati ferocemente bombardati). Strumenti di diritto volti a prevenire il riproporsi delle peggiori ferite della storia sono stati completamente svuotati di significato e, da strumenti atti a proteggere la popolazione civile, sono diventati il mezzo per giustificarne la distruzione. Bisogna smettere di trattare quella a Gaza come una guerra. L’obiettivo di una guerra è sconfiggere militarmente il nemico. Distruggere è l’obiettivo del genocidio le cui vittime sono, diffusamente e precisamente, i civili.
A ottobre, nel mio quinto rapporto, ho mostrato all’Assemblea Generale dell’Onu, la volontà israeliana di distruggere il popolo palestinese, come gruppo in quanto tale. Tramite una triplice lente che guardi olisticamente alla totalità della condotta israeliana in tutto il territorio palestinese occupato (anche la Cisgiordania) e rispetto alla totalità del popolo palestinese in quanto tale, è possibile individuare la volontà di distruzione totale: lo svuotamento del territorio dagli “amalechiti”, evocata per 14 mesi da leader, ufficiali e soldati israeliani coinvolti nell’assalto, per permettere la colonizzazione definitiva della terra di Palestina, che i ministri del gabinetto Netanyahu chiamano eufemisticamente «incoraggiamento alla migrazione».
Negare o invisibilizzare questo obiettivo di lungo periodo significa perdere di vista la matrice di sostituzione coloniale del progetto israeliano sin dal 1948. «Il genocidio come distruzione coloniale» è il titolo del mio ultimo rapporto: ogni processo di colonialismo di insediamento porta con sé un intento genocidario, un seme distruttivo piantato in Palestina dai primi insediamenti israeliani attraverso massacri ed espulsioni, e attualmente in corso a Gaza.
Il genocidio è un crimine diverso dallo sterminio. Si può avere genocidio anche senza uccidere nessuno: quattro su cinque atti di genocidio previsti dalla Convenzione sul Genocidio non prevedono l’uccisione dei membri del gruppo. Ce lo insegnano 500 anni di storia coloniale europea, che l’occidente ha convenientemente rimosso dalla memoria collettiva, ma il sud del mondo e i suoi popoli no. Ed è per questo che Gaza oggi è la cartina di tornasole della giustizia internazionale globale. Se la violenza genocida di Israele non verrà fermata, il futuro del popolo palestinese sarà simile a quello di altri popoli indigeni dove il colonialismo di insediamento ha quasi spazzato via interi gruppi umani: negli Stati uniti, in Canada, in Australia, in Nuova Zelanda.
A riconoscere il genocidio palestinese non sono solo esperti in materia – tra cui William Schabas, il principale accademico mondiale sul tema – e organizzazioni quali Forensic Architecture e Amnesty International, ma la Corte internazionale di Giustizia, che già a gennaio, sulla base di un riconoscimento prima facie del rischio di genocidio a Gaza, ha richiesto a tutti gli stati di porre in essere misure che portassero Israele a fermare una condotta presumibilmente genocidaria. La Convenzione sul Genocidio è chiara: gli Stati sono chiamati non solo a punire il crimine, ma a prevenirlo. In questo tutto l’occidente, e non solo, ha fallito.
L’Italia ha fallito. La nostra Costituzione afferma che l’Italia «si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute». Nel continuare a sostenere Israele, fornendo appoggio economico, politico o militare, l’Italia viene meno non solo ai suoi obblighi internazionali, ma alla Costituzione stessa.
Negare il genocidio – come fatto recentemente dal ministro degli esteri Tajani – considerarlo un argomento di dibattito, oggetto d’opinione personale e non una definizione legale, è il sintomo di un paese che ha sacrificato il popolo palestinese sull’altare della convenienza politica. Quanto meno come misura precauzionale, l’Italia ha l’obbligo di sospendere tutti i suoi rapporti con Israele sino a che non termineranno le indagini sulle violazioni della Convenzione.
La società civile italiana ha dimostrato nell’ultimo anno di condannare ad alta voce il genocidio, l’apartheid e l’occupazione di Israele in Palestina. Tocca ora al nostro governo fare lo stesso, nell’interesse di palestinesi e israeliani, di tutti quelli che quella bellissima e oggi martoriata terra «tra la riva e il mare» chiamano casa. Il momento per agire è ora, il tribunale della storia ci giudicherà.