Le campane della Cattedrale di Nostra Signora dell’Annunciazione a Gerusalemme suonavano a morto mentre una folla enorme si apriva al passaggio del feretro di Shireen Abu Akleh lungo tutto il tragitto da Sheikh Jarrah fino alla Cattedrale nella Città Vecchia, quando sono entrati in azione i picchiatori della polizia israeliana che hanno lanciato granate assordanti e aggredito il corteo coi manganelli, arrivando a bastonare persino gli uomini che portavano il feretro in spalle. La bara è oscillata ed è stata sul punto di cadere in terra. Le sconvolgenti immagini di quest’aggressione a un cadavere, riprese dalle tv, hanno fatto il giro del mondo e suscitato qualche secondo di indignazione nei leader politici occidentali, pur sempre pronti a chiudere un occhio di fronte alle “pratiche” di Israele.
Josep Borrell, Alto rappresentante Ue per la politica estera , ha dichiarato che “l’Unione europea è sconvolta” – aggiungendo che “consentire un pacifico addio e lasciare che le persone in lutto piangano in pace senza molestie e umiliazioni, è il minimo rispetto umano”. Indignazione televisiva, destinata a durare l’espace d’un matin e a scomparire senza alcuna conseguenza politica. Shireen Abu Akleh era una giornalista palestinese, con cittadinanza americana, che da oltre vent’anni riferiva la realtà dell’occupazione militare in Cisgiordania. L’11 maggio stava documentando l’incursione dell’esercito israeliano nel campo profughi di Jenin quando un cecchino israeliano ha deciso che doveva smettere. In Israele c’è il massimo rispetto per la libertà di stampa, ma… quando è troppo, è troppo! Purtroppo questa è solo una goccia nel mare di barbarie che ci circonda e ci fa assistere ogni giorno al fiume di sangue che scorre in Ucraina, che nessuno vuole arrestare fino a quando l’aggressore non sarà sconfitto.
Domenica scorsa, al summit dei ministri degli Esteri della Nato a Berlino, è stato celebrato con un tripudio di amorosi sensi (salvo il dissenso della Turchia) l’annuncio di Svezia e Finlandia di voler aderire alla Nato, abbandonando per sempre lo status di nazioni neutrali. Il Segretario Stoltenberg l’ha definito un evento di portata “storica”: ““La loro partecipazione alla Nato accrescerà la nostra sicurezza comune e dimostrerà che le porte della Nato sono aperte e l’aggressione non paga”. Su quest’ultimo punto siamo d’accordo con Stoltenberg, Putin ha scatenato la guerra per prevenire l’ingresso dell’Ucraina nella Nato e sinora ha ottenuto soltanto che due Paesi storicamente neutrali entrassero nella sfera d’influenza della Nato. È vero: l’aggressione non paga, ma i conti si fanno alla fine. Con l’ingresso della Finlandia, che ha un confine con la Russia lungo 1340 km, si completerebbe l’accerchiamento della Russia da parte della Nato. La questione va inquadrata in una prospettiva rovesciata: non sono Svezia e Finlandia a entrare nella Nato, è la Nato, cioè la sua organizzazione militare – articolazione del dispositivo militare americano – che si espande nei territori di Svezia e Finlandia, arrivando a ridosso di Mosca. La conclusione è che due potenze nucleari, fra di loro ostili, arriveranno a stretto contatto fra di loro. La crisi dei missili russi schierati a Cuba nel 1962 sarebbe un’inezia rispetto alla situazione che si verrebbe a creare con l’espansione del dispositivo militare americano ai confini Finlandia-Russia.
Qualche giorno fa Papa Francesco ha dichiarato che “l’abbaiare della Nato alle porte della Russia”, a suo giudizio, ha spinto Putin a reagire e a scatenare l’inferno in Ucraina: “Un’ira che non so dire se sia stata provocata, ma facilitata forse sì”. Adesso quest’abbaiare è diventato un latrato, un latrato lugubre che ci annuncia che ci siamo messi su un piano inclinato in fondo al quale c’è la terza guerra mondiale. A questo punto il problema è la concezione della sicurezza. La ricetta che gli Usa hanno imposto all’Europa è quella di rafforzare i dispositivi militari (dispiegando anche armi nucleari) per contrastare la potenza definita ostile. Questo significa corsa al riarmo per fronteggiare il nemico da posizioni di maggior forza. Il nemico, a sua volta, è spinto a incrementare la sua potenza militare per fronteggiare meglio il blocco avversario. Situazione tanto più pericolosa perché – come ci ammonisce Marco Revelli – “tutto questo avviene nel pieno di un travolgente processo di decostruzione di tutti i dispositivi di intermediazione e di garanzia contro i rischi di una perdita di controllo dei conflitti pazientemente costruiti nei decenni della guerra fredda, per impedire che essa diventasse calda”. Fra questi dispositivi giocavano un ruolo importante le fasce di neutralità di Paesi come la Svezia e la Finlandia.
Una politica di sicurezza deve puntare a costruire una sicurezza comune, non si può incrementare la sicurezza di un blocco politico-militare a scapito dell’altro. La sicurezza comune si costruisce concordando misure di disarmo graduale reciproco e abbassando la tensione fra nazioni potenzialmente ostili. Nei momenti più bui della Guerra fredda, leader come Aldo Moro e Willy Brandt furono capaci di dissociarsi dalla logica della guerra e organizzare una Conferenza sulla Sicurezza e Cooperazione in Europa, fondata sul principio della ricerca della sicurezza collettiva, segnando un passo significativo per la riduzione delle tensioni in Europa fra l’Urss e il blocco occidentale. Il processo che stiamo vivendo ci porta dritti verso la catastrofe ma può essere arrestato, basterebbe un solo leader che si alzasse e dicesse no, perché l’allargamento della Nato richiede l’unanimità e non sarà certo Erdogan a salvarci.
Ci sarà in Italia un leader capace di dire no?